Leggere America amore è un po’ come andare con i ricordi a certe immagini della televisione della fine dei ’60 o dei primi ’70, quando Carlo Mazzarella o Sergio Telmon si sedevano al tavolo della mensa universitaria di qualche campus della Ivy League o del Caltech e intervistavano per ore Herbert Marcuse o Marshall McLuhan mentre, al tavolo vicino, Richard Feynman sbucciava un’arancia.
Basic, direbbe l’Autore, e subito ci si ritrova tutti in completo nero con camicia bianca e cravatta scura e sottile (molto Kennedy o molto Rat Pack o molto George Peppard in Colazione da Tiffany, tanto per non dimenticarci del Truman Capote).
Alberto Arbasino (spesso blasé, a volte tranchant, ma sempre godibilissimo nel suo stile torrenziale ed elegante) ci porta tutti in America (quella degli States, per intenderci; la famosa parte per il tutto) e non ne ricava soltanto un ricercato reportage a metà strada tra il Village Voice e Il Mondo di Pannunzio, ma chiede, cerca di capire, va spesso al di là del suo stesso stile (con qualche innesto successivo - che ci fa, per esempio, un riferimento a Cruising in un testo scritto quarant’anni fa? - ma per Arbasino, si sa, ogni opera è un work in progress; la rivisita e la riscrive ed è questo il suo bello) per consegnarci la descrizione (a volte raffinatamente attonita, ma dell’attonito del preveggente) della preistoria della nostra contemporaneità. Tutto il cattivo gusto e il superfluo che ci circonda hanno avuto un luogo d’origine, una loro fucina dove il pop si mescola al kitsch e insieme producono banale orrore quotidiano; e quel luogo è proprio quell’America che Arbasino vede, cerca di indagare e abbandona al suo destino, ben sapendo che quello stesso destino sarà (come è stato), anche troppo presto, il nostro.
Un libro.
America amore, di Alberto Arbasino (Adelphi).
Nessun commento:
Posta un commento