A volte succede di essere sorpresi nelle reminiscenze del proprio immaginario. Sedimentazioni di letture, di parole, di libri letti, di immagini viste. Libri e parole letti e, forse, dimenticati. Immagini che si sono aperte un varco nel nostro immaginario e poi si sono, forse, rese irreperibili. Immagazzinate e, forse, perse e dimenticate. Ma perse e dimenticate per essere poi, inesorabilmente, ritrovate.
Quell'impermeabile bianco, indossato quasi a celare il dolore di un'anima. Il giallo ocra della fotografia che, sapientemente, trasla lo spazio e il tempo. Lo spazio e il tempo di una Napoli che diviene luogo delle idee e di una storia senza tempo, anche se, nel tempo, anzi, nei suoi tempi, vi è drammaticamente infusa.
La storia di Renato Caccioppoli. La storia di un matematico.
Una narrazione tagliente che, nella sua stessa ragione d'essere, diviene simbolo della infinita possibilità del narrare. Di quel narrare che va ben oltre la parola e le immagini, per trasformarsi, nel suo stesso esistere, in una creazione autonoma. Che c'è per il solo fatto di esistere. Come la infinita, viva, tragica e ineluttabile sequenza dei numeri.
Come il superamento di un ostacolo spazio-temporale, le immagini di questo film, rivisto nella notte senza tempo di Enrico Ghezzi mi hanno riportato al buio di una sala dove, anni fa, ho avuto il privilegio di esserne spettatore.
Un film.
Morte di un matematico napoletano, di Mario Martone (1992).
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