C'è un certo fascino retrò nell'apprendere notizie che riguardano il web dall'ascolto mattutino delle rubriche radiofoniche dedicate alla lettura dei giornali. Una doppia valenza, forse negativa agli occhi di qualcuno, ma per me affascinante: una radio dove si leggono giornali. Un mezzo quasi obsoleto, a suo tempo ucciso da un mezzo oggi forse ancor più obsoleto ("video killed the radio stars", ça va sans dire), ai microfoni del quale si leggono addirittura giornali in forma cartacea. Robe da far impallidire per il disgusto mezza blogosfera.
Ebbene è proprio dalla radio della mia auto (un'auto con il motore a scoppio inventato nel XIX secolo; ma, quand'ero piccolo, non si diceva che nel 2000 avremmo usato futuristiche capsule mosse da fantascientifici combustibili?) che la voce raffreddatissima di un giornalista mi annuncia che Wired ha proclamato la morte del web.
Sul Corriere della Sera di venerdì 20 agosto 2010, Carlo Formenti produce un'interessante esegesi. Secondo Formenti: ciò di cui si annuncia la fine è il Web in quanto "applicazione": quell'insieme di tecnologie-dai software di navigazione ai motori di ricerca-che, dall'inizio degli anni 90, hanno consentito a milioni di utenti privi di competenze tecnologiche di "navigare" in quell'immane deposito di informazioni che è la Rete.
Sempre secondo Formenti ciò sarebbe avvenuto perché la maggioranza degli utenti dedicherebbe ormai la propria attenzione a quelle piattaforme "chiuse" (leggi: Social Networks) che costituirebbero una vera e propria alternativa al Web originariamente inteso.
Sembra proprio che siano passati secoli dal buon vecchio cyberpunk. Non siamo diventati (non ancora almeno) dei cyborg. Però ci siamo rinchiusi, di nostra spontanea volontà, in un bel recinto. E abbiamo lasciato, con il sorriso sulle labbra, che i guardiani chiudessero a chiave la porta. Forse siamo già in un romanzo di William Gibson o di Bruce Sterling. E se, forse, il guardiano è il Dr. Adder, non c'è più speranza.
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