lunedì 28 settembre 2009

"Notte di nebbia in pianura" recensito da MilanoNera


La nebbia “ti piace perchè ci sei nato dentro, la respiri, la modelli con il fiato” e la nebbia fa da cornice e da contenitore alle vite dei personaggi del romanzo d’esordio di Angelo Ricci. Avvocato di professione e scrittore per passione, Ricci non si distacca dai paesaggi a lui familiari e dalle atmosfere suggestive ed evocative della Lomellina, ed ambienta il suo romanzo in quel territorio in cui la nebbia, nonostante tutto “ti piace e fa la differenza”.
Il romanzo è a più voci, tanti personaggi apparentemente autonomi, finiscono per essere accomunati dallo stesso destino tragico o triste. Uomini e donne, consumano i loro drammi quotidiani, le loro solitudini ed incomprensioni, ambizioni e sogni, proprio in una notte di nebbia fitta e umida che annuncia l’imminente Natale.
Nel grigiore ovattato della nebbia, si distinguono però i colori: il giallo del capannone da dove un giovane imbonitore presenta la sua televendita, il verde delle foglie della pianta dell’ospedale dove muore la madre del giovane obeso e disadattato, il nero ed il blu scuro delle auto di lusso di giovani arricchiti e senza scrupoli, il nocciola e l’azzurro degli occhi spaesati delle loro donne dell’Est, il blu, il fucsia ed il grigio delle felpa dell’inconsapevole compagna italiana di un terrorista arabo. Su questo scenario di vita ordinaria si alza la voce dissacrante di Sticazzi, giovane balordo che con un amico vaga per la notte vomitando volgarità e rancori.
Quante cose succedono in una notte! Una notte di nebbia che, sembra attutire i rumori e nascondere le verità, ma che custodisce, invece, brandelli di vite difficili e tormentate.
L’arresto di Anna fa notizia, ma è solo giovane madre impaurita che non vuole accettare di aver raggiunto una normalità irregolare e che, come vittima di un torpore interiore, si estrania dal mondo e in stato di trance sente solo il calore della felpa che la lega al suo uomo. La solitudine del giovane orfano, si accentua durante la notte, quando a letto rivive con flashback angoscianti la sua infanzia e il suo rapporto con la madre forse troppo presente e opprimente e morta da poco.
La ripetitività di gesti e parole e l’ipocrisia di un uomo che cerca di vendere robaccia e di convincere soprattutto se stesso delle sue scelte. Giusta la giacca, le scarpe, il tono di voce o le luci ma sarà giusto il suo lavoro, è quello il suo obiettivo? Vuoti e senza principi i giovani imprenditori si giocano a carte il futuro e pianificano strategie per salvaguardare il loro patrimonio sotto gli sguardi rassegnati di Alessia e Svetlana, immigrate in cerca di fortuna che si vestono alla moda ma percepiscono la vacuità e la superficialità di quel tipo di vita. Insomma, tante storie che si intrecciano in una notte di nebbia.
Le parole ripetute, i concetti espressi più volte dall’autore evidenziano ed esprimono il tormento interiore che si impadronisce dei personaggi, vittime di legami fortemente recisi o mai consolidati o dello stesso destino, su tutti incombe la nebbia!
Cristina Marra

martedì 15 settembre 2009

"Notte di nebbia in pianura" e Parole Nel Tempo


"Notte di nebbia in pianura" arriva a "Parole Nel Tempo-Piccoli editori in mostra".
Domenica 27 Settembre 2009.
Alle ore 16.
Sala 2 del Castello di Belgioioso, a Belgioioso (PV).
La presentazione sarà a cura di Giuseppe Polimeni (Università degli Studi di Pavia).

sabato 12 settembre 2009

Uomini fatti di libri

Leggendo Trilogia di New York di Paul Auster mi appare alla memoria, non so perché, l’immagine mitteleuropea di Elias Canetti e del suo Auto da fè. Per la “trilogia” mi riferisco al primo dei tre romanzi: Città di vetro. Daniel Quinn si nasconde dietro ad uno pseudonimo per scrivere romanzi polizieschi e si trova invischiato in una discussione con un altro personaggio (che porta il nome dell’autore stesso della “trilogia”) sulla genesi del Don Chisciotte, che vedrebbe concretizzarsi un gioco di specchi fra un Cervantes presunto autore e un Chisciotte realmente esistito, che racconta la sua storia ad un Sancho Panza che forse è Cervantes stesso e via discorrendo. Un gioco di specchi fra libri passati e libri presenti, fra il romanzo stesso e l’autore che diventa personaggio del suo romanzo, scritto però da un altro. E tutto ciò mentre nel romanzo si racconta una storia simile di scambi fra autori e presunti personaggi, a loro volta diventati autori.

Libri fatti di uomini e uomini fatti di libri, come il Peter Kien di Elia Canetti in Auto da fè, l’uomo appunto fatto di libri. Il sinologo di fama mondiale che vive barricato fra i suoi testi di studio che conosce meglio della vita stessa. Anzi i suoi libri sono la vita stessa.

Peter Kien verrà distrutto dalla sua governante, Therese Krummholtz; Daniel Quinn verrà distrutto da se stesso (o forse non è lui ma il suo personaggio a distruggersi?).

Ancora una volta vedo il sorriso sornione di Jorge Luis Borges.

giovedì 10 settembre 2009

Come un chicco di riso (racconto pubblicato da "La Provincia Pavese")

-Allora, Ramona, Roberto dice che sei troppo gelosa e che si metterà con Luna. Tu che ne dici?-
La tazzina è bollente.
-Roberto, che rispondi a Ramona?-
La lascia andare di colpo e una goccia di caffè finisce sul metallo del bancone.
-Luna? Tu che fai?-
La conduttrice bionda sta appollaiata sugli scalini dello studio. Pantaloni di pelle e tacco dodici. Sulla faccia una smorfia di attesa, mista a studiato disgusto. Lo schermo al plasma rimanda sfondi azzurrini. Appeso a due metri d’altezza.
-Secondo me si sbaglia. Lasciare andare uno con un fisico così. È proprio una scema.-
Il bruciore sui polpastrelli arriva sempre qualche secondo dopo.
-Ai miei tempi mi sarei subito fatta avanti.-
Le due donne al tavolino bevono coca cola. Hanno permanenti gialle sopra le rughe nascoste dagli occhiali. Il gonfiore alle caviglie fa calzare pantofole rosa e blu.
Il dolore alle dita scompare subito. Appena il tempo di finire il caffè e di sentire un leggero colpo sul collo.
Si gira. Le due donne sui sessanta fissano lo schermo. In fondo alla sala quattro ragazzini. Quello con la cannuccia in bocca gli fa vedere il dito medio alzato.
La ragazza alla cassa ritira l’euro con dita tatuate.
Fuori. Nel sole. Nell’afa d’asfalto della piazza. Finalmente.
L’odore delle risaie a fine luglio, quello che senti subito quando passi il Sesia arrivando da Vercelli o il Po, arrivando da Alessandria, è scomparso nel sole della piazza.
Sono anni che non ritorna più in Lomellina. Che non ritorna più a casa sua. Ed è arrivato in ritardo. Si è perso il mare delle risaie. Si è perso la chiesetta di San Paolo che sembra galleggiare sull’acqua. Come a Venezia. Avrebbe dovuto venire in aprile. Ma il lavoro è lavoro.
-E così ti faccio fare un viaggetto dalle tue parti. Non lo faccio mai per nessuno dei miei. Ma per te faccio un’eccezione. Sei il mio elemento migliore.-
L’edicola è sempre al solito posto. È chiusa. Come sempre, alle due del pomeriggio.
Il calore dell’asfalto attraversa il cuoio spesso dei mocassini inglesi. L’afa gli incolla la camicia alla pelle. Si toglie la giacca di lino e se la mette sul braccio. In Libano e in Sicilia non è mai così. Te ne stai tutto elegante nel secco del caldo. La giacca e la cravatta non te le devi togliere. Basta mettere sempre gli occhiali da sole.
E sei a posto. Sempre.
A sinistra hanno ristrutturato il vecchio palazzo. Erano le scuole o la pretura o l’ufficio di collocamento. Chi se lo ricorda più. È passato troppo tempo. Troppo.
Comincia a sudare. Chissà perché con il caldo che fa d’estate, qui gli alberi sono sempre pochi.
In Libano ce n’è un sacco. Ecco perché hanno un albero sulla bandiera. Qui, se avessimo una bandiera, dovremmo metterci una spiga di riso. E il riso vuole il sole, non gli alberi. Ecco perché.
Attraversa lentamente la piazza. In fondo a destra c’è la stradina che porta a quella bella chiesa. Non se ne ricorda più il nome.
È passato troppo tempo. Troppo.
-Ma è per questo che ti faccio fare un salto a casa tua. Perché tu lavori bene. Te l’ho già detto. Sei il mio elemento migliore. E io non voglio che i miei uomini soffrano di nostalgia.-
Adesso si gira. Si gira verso il palazzone di dieci piani tutto balconi di vetro e piastrelline, che sembra fare la guardia nell’afa della piazza.
-E che ci vuole? Un po’ di Milano non guasta. Neppure dalle tue parti. E poi e che è? Con quei palazzi ci facciamo da sempre un sacco di soldi. Mica con il tuo riso, che oggi meglio di voi lo fanno indiani e cinesi.-
Forse sarebbe meglio sedersi sul marciapiede. Come faceva da bambino.
È passato troppo tempo. Troppo.
Si alza. Si rimette la giacca. Per cercare bene le chiavi della Mercedes nera. Prima che caschino dalla tasca.
I passi risuonano nel giallo opaco del sole afoso. Il calore delle auto nel parcheggio produce un tremolio a mezz’aria. Come a Beirut. Come a Palermo.
Il singulto dell’antifurto lo strappa dai suoi pensieri.
-Mi raccomando. Fai tutto con calma. Ma che te lo dico a fare. Sei il mio elemento migliore.-
Un tuffo al cuore. Sapore metallico in gola. La valigetta!
È solo un attimo. È passato troppo tempo. Troppo. I ricordi non dovrebbero mai esistere sul lavoro. Mai.
La valigetta. È rimasta nel bar. Bene!
Sale in auto. Accende l’aria condizionata e mette in moto. La Mercedes nera lascia lentamente le strisce blu del parcheggio.
Una mano nella tasca interna della giacca. Lascia il telecomando dell’antifurto e ne prende un altro. Più piccolo.
-Con calma. Mi raccomando. I tempi. I tempi sono fondamentali. Premi il bottone bianco. Ma tu lo sai già. Sei il mio elemento migliore. Faremo un bel botto. Così qualcuno ricomincerà a portarci rispetto.-
La Mercedes nera va verso Milano. Verso il Ticino.
Ecco. Lentamente. Lo sente di nuovo. Prima piano. Poi sempre più intensamente. È l’odore del riso. Quello che senti subito quando passi il Sesia arrivando da Vercelli o il Po, arrivando da Alessandria.
La mano afferra il telecomando più piccolo e preme un bottone bianco.
Bianco. Come un chicco di riso.

Angelo Ricci