martedì 17 marzo 2015

Giorgio Manganelli (1922-1990): un comunicato di Lietta Manganelli

Ricevo e volentieri pubblico questo comunicato inviatomi da Lietta Manganelli.

Cari amici,

gli anni passano e noi a volte non ce ne accorciamo nemmeno. Quest'anno sono 25 anni che il grande Manga è passato in un'altra dimensione.
Noi tutti sappiamo benissimo che il Manga non è mai morto, nel senso reale del termine: quante volte i suoi scritti, i suoi fulminanti pensieri, ci sono sembrati talmente attuali da sconcertarci, quante volte ci siamo chiesti, “Ma lui cosa avrebbe detto in quest'occasione?” , per accorgerci, stupiti, ma non troppo, che lui “l'aveva già detto!”.
Ci ha dato tanto che penso, e credo sarete d'accordo, ora tocchi a noi restituire qualcosa.
Come voi sapete, io da anni tengo, faticosamente, in piedi Centro Studi Manganelli: 
eventi, ricerche, studi, tesi di laurea, nuove pubblicazioni, tutto questo e tanto altro è stato reso possibile dal Centro, che ora, l'ho ripetuto fino alla nausea, rischia di annegare. Le istituzioni non esistono, non se ne occupano, salvo poi fregiarsi di merito quando i giochi sono fatti.
Ora, quest'anno, e mi pare doveroso, avrei in mente eventi ed omaggi da creare, ma per quanto io sia diventata un campione nel fare “le nozze con i fichi secchi”, veramente rischio di rimanere senza nemmeno i fichi secchi.
Sono certa che se ci mettiamo tutti insieme, un po' di fichi secchi potremo comprarli, non si cercano grandi cifre, certo se uno può, sono benvenute, ma veramente basta poco,  quello che uno è in grado di fare. Certo possono essere gocce nel mare, ma se quella goccia non ci sarà, al mare mancherà sempre quella goccia.
Lo so, è un periodo di crisi ma, senza cultura, dalla crisi non usciremo mai.
Non lasciamo che questo anniversario passi invano, non lasciamo solo il Manga, non lasciate sola me a dimostrazione che, come molti mi hanno detto e continuano a dirmi, sto cercando di raccogliere il mare con una forchetta!!!
Io sono sicura che amiamo il Manga, che non lo dimenticheremo.
Sono sicura che “ci daremo” una mano, siamo abbastanza folli per farlo, altrimenti il Manga non ci piacerebbe.
Se volete contattarmi, per qualunque cosa, e prometto che risponderò a tutti e, se a volte non l'ho fatto, per vicende familiari, ora il Centro (e il Manga) è una delle poche cose che mi danno la forza di andare avanti.
Grazie.
Lietta Manganelli

lietta.manganelli@gmail.com
349 7789466
Facebook – Manganelli Amelia detta Lietta
sito: manganelli.altervista.org


P.S. Naturalmente anche idee, suggerimenti, progetti... per quanto folli sono più che ben accetti!

In che modo si può intervenire?
Con una donazione e conseguente iscrizione alla costituenda associazione (che verrà ufficializzata al più presto).
La quota per l'iscrizione minima è di 50 euro (30 per gli studenti, che, come è noto sono sempre ricchi di entusiasmo ma poveri di pecunia).

La quota può essere versata su una Poste Pay attivata a questo scopo. Tutto verrà registrato e l'iscritto riceverà un tesserino attestante l' iscrizione.

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intestato a Manganelli Amelia Antonia.
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Eccovi anche i dati bancari utili allo stesso scopo

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Intestato a Manganelli Amelia Antonia

E' stata attivata anche una carta Pay pal collegata all'indirizzo e mail lietta.manganelli@gmail.com

I modi non mancano, ora ci vuole solo un po' di buona volontà, e so che gli amici del Manga ne hanno tanta!!

Penso che un piccolo sacrificio per il grande Manga sia possibile e doveroso.
In questi anni mi sono sempre fatta carico io di tutto ma ora non mi è più possibile.
Grazie e a presto

domenica 15 marzo 2015

Il mezzo, forse e per fortuna, non è più il messaggio.

Non vorrei lanciarmi in previsioni azzardate, ma credo che tutto ciò che è letteratura (spesso anche ottima) creata in questi attimi attraverso gli spazi delle coeve timeline senza respiro sia destinata a trasformarsi in produzione che ha colonizzato sì una variante spaziotemporale (e qui sta il suo ineludibile merito), ma che diverrà, o è già diventata, soltanto un ricordo narrativo, certamente importante, come il dadaismo o il futurismo. 
Pensare in questo medesimo istante quantistico che Twitter o Facebook o Tumblr o Pinterest possano fare la differenza per la letteratura è come pensare la stessa cosa nel 1900 a proposito del telefono o del telegrafo o della luce elettrica. 
La letteratura vive al di là dei suoi stessi supporti. Come scrisse Edward M. Forster in Aspetti del romanzo non c’è differenza alcuna fra l’Homo Sapiens che per la prima volta, in una notte rischiarata dalla luce di un falò, sulla parete di una caverna dipinse le scene di caccia a cui aveva assistito nel pomeriggio precedente e l’essere senziente che batte sulla tastiera di una Remington del 1920 o, si può aggiungere, sulla tastiera di un pc in questo scorcio di Terzo Millennio.
Come è scritto nel sito dello Slow reading: Un libro è una storia conclusa in se stessa, un ragionamento, o un’unità conoscitiva che richiede almeno un’ora per essere letto. Un libro è completo, nel senso che contiene un inizio, un nucleo centrale, e una fine. In passato veniva definito libro qualsiasi cosa stampata tra due copertine. Una rubrica telefonica era un libro, benché priva secondo logica di un inizio, un cuore e una fine. Una pila di pagine bianche rilegate veniva chiamata sketchbook (letteralmente: libro per gli schizzi, nel senso di album). Per quanto sfacciatamente vuoto, aveva due copertine, e rientrava perciò nella definizione di libro. Oggi le pagine di carta di un libro vanno scomparendo. Quel che resta al loro posto è la struttura concettuale di un libro – una certa quantità di testo tenuta assieme da un tema, in un’esperienza che richiede un certo tempo per essere completata. (…) Non potremmo porre il periodo, o il paragrafo, o il capitolo, anziché il libro, come unità elementare di una biblioteca universale? Può darsi. Ma la forma lunga ha una sua specifica forza. Una storia in sé completa, una narrativa unificata, un argomento concluso esercitano una strana attrazione su di noi. C’è come una naturale risonanza che produce una rete tutt’attorno. Possiamo spezzare i libri nelle loro parti costitutive e risaldarli nel web, ma il focus dell’attenzione si appunterà sempre sul più elevato livello di organizzazione del libro, essendo questo l’oggetto scarso della nostra economia. Un libro è una unità dell’attenzione.
Forse per la prima volta possiamo contraddire l’assioma di Marshall McLuhan e affermare che il mezzo non è il messaggio e avere la libertà di non applicare in letteratura la dittatura filosofica del positivismo alla Comte.

lunedì 9 marzo 2015

Cattivi, di Maurizio Torchio (Einaudi)

Cattivi non è un romanzo “penitenziario”, come alla ambientazione “penitenziaria” riferiamo certe produzioni televisive come Oz o Orange is the new black o filmiche come Fuga da Alcatraz. Cattivi è ben più di tutto questo. Sarebbe riduttivo infatti circoscriverlo alla mera descrizione di quella realtà coattiva, oppressiva e claustrofobica come quella che delimita quell’eterno sistema punitivo che la società degli umani definisce carcere. Cattivi va invece inteso come una metafora di un paradigma storico che ha nelle sue note principali l’enunciazione violenta dei rapporti tra l’essere umano e l’istituzione, creazione imperfetta di demiurghi altrettanto imperfetti che, per mezzo di questa coniugazione di difetti illimitati, segna i rapporti storici, politici ed economici della comunità.
Lo stile dell’Autore è genialmente scarno, asciutto, secco, affilato come una lama nascosta in un pertugio segreto del cortile di un carcere. Lama che prima o poi diverrà ente vivente anche se, e forse proprio per questo, dispensatore della fine di altri enti viventi. 
Richiami storici alle evidenze criminali italiane degli anni Settanta e Ottanta (i sequestri di persona, i detenuti politici, quell’isola che evoca l’Asinara) si fondono con apparizioni spettrali di gruppi di nuova criminalità mondializzata e demoniaca che segnano in modo indelebile i primi anni del Terzo Millennio (gli Enne che, schierati come una letale collettività Borg, ricordano i cartelli degli Zetas o le macchine da morte della Mara Salvatrucha).
L’Autore lentamente pone la storia, la trama, il romanzo stesso in una immobilità spaziotemporale a cavallo tra un passato che sanguina nel presente e un futuro che è già contaminato da quel sangue. Cattivi giunge così a colonizzare un momento narrativo che si esfiltra da storicizzazioni scontate, che riesce a toccare e a superare i luoghi e i confini della stessa scrittura che è elemento fondante e vivente della letteratura e a trasfigurarsi, come pochi altri romanzi, in territorio narrativo e narrante che riesce nell'impresa di portarsi al di là dei confini della letteratura stessa.
Quel finale misterico e insondabile, quella sacra rappresentazione dell’assenza totale di tutto e di tutti, quell’eco di parole rimaste ultime e uniche a cercare di sondare un deserto di atti, opere e omissioni fa di Cattivi un’opera da porre tra le pietre miliari di quel segreto sentimento che è il senso dello scrivere.
Un libro.
Cattivi, di Maurizio Torchio (Einaudi).

martedì 3 marzo 2015

RIP, di Marco Valenti (Antonio Tombolini Editore)

Frammenti di ricordi che vanno a costruire una narrazione che oltrepassa i tempi dei sentimenti e della sofferenza. Riflessioni di un io narrante, dalla scrittura tesa ed essenziale, che combatte per condividere con il presente quello che è stato e quello che più non potrà essere, nella speranza di un armistizio interiore che è forse la determinazione ultima delle creature senzienti.
Diario minimo e al contempo immenso di un dolore che riproduce se stesso nella contemplazione di parole che forse non si è giunti in tempo a pronunciare. Cronografia dell’intersecazione ineludibile dei legami di vite paterne e filiali, spesso intese da un osservatore esterno come immagini dalla apparente e semplice sembianza, e che invece sempre hanno la capacità di essere messaggere di complesse composizioni e insondabili posture dell’anima.
Marco Valenti crea la materia della vita e della morte con la sapiente levità di uno scultore alle prese con essenze materiche che presentano la capacità di trasfigurarsi in infiniti momenti che l'Autore stesso vuole, come obbligo morale, fissare. Ed è questa opera di solidificazione dell’insolidificabile, sfida estrema e vasta, che l’Autore accetta senza timore e che lentamente assembla con l’uso basilare della parola scritta, una parola che è strumento di razionalizzazione e di comprensione, nel senso non tanto del conoscere quanto del prendere con sé. 
Al termine di questo breve e intenso romanzo, in cui si sentono forti gli echi e gli stilemi e gli influssi importanti di una certa e imprescindibile letteratura italiana, purtroppo ormai da pochi perseguiti e portati ad esempio (e che Valenti ben sa come metabolizzare), ci rendiamo conto di aver raggiunto quel non comune attimo in cui ci sentiamo parte di quel tutto dove l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo possono finalmente e vicendevolmente riflettersi.  
Un libro.
RIP, di Marco Valenti (Antonio Tombolini Editore).

lunedì 2 marzo 2015

1960, di Leonardo Colombati (Mondadori)

Leonardo Colombati dà alle stampe per i tipi della casa editrice di Segrate questo nuovo tassello, monumentale comunque, che altro cammino percorre nella sua personale predilezione, condivisibile assai, per quel romanzo universo che è luogo mitico, meta narrativa (e metanarrativo, of course), obiettivo narrante che rimanda a epifanie letterarie sudamericane, mitteleuropee, postmoderne anzi che no. 
1960 prende le mosse dalle capitoline olimpiadi che hanno lasciato in eredità all’italico immaginario le imprese atletiche di Livio Berruti e quelle ziqqurat e mastabe architettoniche che ancora oggi sono rimembranza edilizia di quel principiare di decennio che si pone come frontiera immaginifica tra le tribolazioni postbelliche, il boom economico e i successivi travagli politici dei Settanta.
Pretesto geniale quel 1960, data simbolo che l’Autore utilizza come lasciapassare per la genesi di una storia che è palesemente foto di gruppo (con signora e faccendieri) di quella “capitale corrotta, nazione infetta” che la lenzuolata tipografica d’epoca de L’Espresso pose a imperitura memoria e ricordo di una nazione malnata e mai compiuta. Colombati è bravissimo nel tessere una trama che tutto unisce e dimostra, tutto svela e storicizza attraverso lo strumento di una narrazione che crea un libro che è forse “il” libro definitivo che, come un Vangelo Sinottico, fa combaciare lembi di cupe e oscure macchinazioni che altro non sono se non l’ossatura malefica di una comunità nazionale che mai ha saputo riconoscersi come portatrice di un destino condiviso e che, anzi, da questo destino imperfetto si è fatta manipolare e forse oggetto di questa manipolazione lo è ancora.
Golpismi tragicomici, istituzioni macchiettistiche, che comunque grondano del sangue di una dilettantesca avventatezza dal sapore borbonico, scenari sullo sfondo dei quali si agitano intellettualismi letterari e cinematografici da camarille dal provincialismo estremo e definitivo che “malgrado voi” (cantava Venditti in Bomba o non bomba), ancora oggi presiedono alla enunciazione di ciò che è culturalmente agréable.
Solo un grande scrittore avrebbe avuto il coraggio di raccontare quel “non agit sed agitur” che da sempre definisce ogni produzione peninsulare, dalla politica all’economia alla cultura o culturame che sia, alla contaminazione dei poteri che da sempre negano quella separazione declamata da Montesquieu .
I personaggi di Vogliamo i colonnelli ben si adattano a comparire in questo romanzo universo assieme al principe Annibale di Roviano e all’ammiraglio Attila Canarinis (gli inarrivabili Eduardo e Totò, con il sottofondo del gemito reiterato di una canzonetta nascente da un qualche musicarello, mentre grand commis di stato danzano una ignobile allegoria del potere). Se tutto forse ha narrativamente avuto inizio con La salamandra di Morris West e si è poi estrinsecato nel Todo Modo di Sciascia, passando ça va sans dire per i pedalini oscuri del dirigente dell’Ufficio Politico di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, è con 1960 che questo archetipo quasi junghiano della contaminazione politica giunge a compimento.
Leonardo Colombati è il nostro risolutivo Thomas Pynchon e, se fossero ancora tra noi, da 1960 Elio Petri ne trarrebbe sicuramente un film in cui il tenente colonnello Agostino Savio non potrebbe che essere incarnato da Marcello Mastroianni.
Un libro.
1960, di Leonardo Colombati (Mondadori).