martedì 29 dicembre 2015

Notte di nebbia in pianura. La recensione di Roberta Marcaccio


Notte di nebbia in pianura è stato il primo romanzo che ho pubblicato e per questo mi legano a questo libro un affetto particolare e anche i ricordi del mio esordio come autore. Questo blog prende proprio da lì il suo nome. Roberta Marcaccio ne scrive una magnifica recensione. Notte di nebbia in pianura è disponibile in versione cartacea per i tipi di Manni Editori e in versione ebook per i tipi di Antonio Tombolini Editore in cui, nella collana Officina Marziani, va a comporre, con Sette sono i re e L'odore del riso, la mia "Trilogia della pianura"
L'originale della recensione è qui. Buona lettura e Buon Anno!


La nebbia. La nebbia in questa terra. La nebbia che d’inverno ricopre i campi che d’estate diventeranno un mare a quadretti.Non serve a niente.Non ti ci puoi nascondere.Mai.
Dopo anni di corsi e lettura di manuali di scrittura, ho capito una cosa!
In scrittura non esistono regole. Non esiste uno stile. Non esiste un prontuario del giovane scrittore.
Quello che esiste è lo stile che ognuno ricerca e le regole che ogni autore fa proprie.
Sono rimasta colpita da libri che erano al di fuori da ogni canone letterario e dalla particolarità stilistica scelta dallo scrittore.
Come in Notti di nebbia in pianura, romanzo di Angelo Ricci, che ancora una volta mi ha catturata in una lettura noir per me insolita.
È una storia forte, dura. Una vicenda di vite spezzate, avvolte dalla nebbia.
Nebbia che ricopre, congela, stravolge, confonde.
Nebbia in cui si perde tutto: l’arroganza dello Sticazzi, il colore degli occhi di Svetlana, il cemento della tomba che ormai sarà tutto spaccato, la felpa di Ibrahim così calda, l’avvocato che vende opere d’arte a trecentonovantanove euro…
Le storie dei vari personaggi si snodano nella notte della Vigilia di Natale; sono vite apparentemente divise, le une dalle altre, ma allo stesso tempo accomunate dallo stesso clima e strappate alla stessa amarezza.
Lo stile di Angelo Ricci è ancora una volta unico, mi piace definirlo “uno stile al di sopra dello stile”: una scrittura in cui non esistono regole e la narrazione, anziché essere banalizzata, viene esaltata.
Vite come polvere.
Vedo la polvere che danza nel cono di luce che producono i riflettori. La polvere che adesso si stenderà piano piano su queste croste da poco prezzo e su queste povere suppellettili placate argento mille.Vedo la polvere che si agita attorno a noi.Che ci domina.Che ci governa.Che respiriamo.Tutti i giorni.Sempre.

martedì 15 dicembre 2015

Vermeer tra ombre e "colmo dei lumi". La fanciulla, la donna e il raggio fecondo, di Augusto Iossa Fasano (Aracne)

“Ci sono più cose in cielo e in terra… “ scriveva Shakespeare e in questo agile e utilissimo saggio veniamo a scoprire universi plasmati e celati dall’uso sapiente di luci e ombre, dalla significante allocazione di oggetti, di barriere, di figure che albergano mistericamente nella pittura forse enigmatica di Vermeer che, percorrendo la strada cifrata della simbolica cosmogonia che vive sotto la superficie dei dipinti dell’iconografia occidentale, semina flussi di ataviche e reiterate rimembranze di vita e di morte, di pace e di violenza, flussi pittorici che sottendono al flusso spermatico di inseminazioni che è punto Omega dell’incontro simbiotico degli esseri. Un costante feedback di informazione non genetica vive e palpita tra gli scenari (verrebbe da dire paesaggi umani) che nascono dal perimetro finito di questi dipinti, perimetro finito che tuttavia si schiude al perimetro infinito della informazione genetica. Così scrive l’Autore: “Tredici le opere attribuite a Vermeer con donna e finestra visibile, in altre quattordici la cornice della fonte luminosa non compare direttamente, ma se ne intuisce la prossimità. In totale per ventisette volte una donna si espone, pur ben coperta, alla luce che penetra da qualche apertura delle mura di casa”. Così scrive Bianca Tosatti nella prefazione: “I numeri parlano di gravidanze e inseminazioni, come nella geometria sacra in cui Tredici simboleggia l’eterna distruzione e creazione della vita. Ma Ventisette è un numero potente, prodotto da un quadrato per un cubo, e ventisette sono le opere in cui Vermeer espone una donna alla luce di una finestra (quadrato) che illumina una stanza (cubo)”.
Scopriamo così l’esegesi di una perenne annunciazione che ingravida la donna come eterno archetipo che trasmette la vita, una annunciazione che inizia addirittura nell’altrove degli umani, un altrove forse dominato da un demiurgo frutto di una gnosi apparentemente indifferente e tuttavia pregna della ricerca del significato ultimo delle parole e delle cose. La figurazione maschile, soldato o maestro o sapiente demone portatore di fascinose seduzioni, si pone più come ostacolo che come essenza di intermediazione carnale, ostacolo (con)fuso nella barriera di altri ostacoli (im)mobili, tendaggi o sedie o tavoli o credenze, ostacolo forse foriero di occulta e lacerante violenza, nella simbolica riaffermazione di uno spostamento virtuoso di confini raggelati dalla quotidiana, e per questo ancor più agghiacciante, concretezza del presente ma tendenti tuttavia all’incontro ineludibilmente necessario con l’infinita fonte di spazio tempo declinato dalla eternità di quelle particelle elementari, i fotoni, al contempo viventi sia come essenza sia come percorso compiuto dal messaggio genetico della luce.
Un libro.
Vermeer tra ombre e “colmo dei lumi”. La fanciulla, la donna e il raggio fecondo, di Augusto Iossa Fasano (Aracne).

martedì 1 dicembre 2015

Sette sono i re. La recensione di Roberta Marcaccio


Roberta Marcaccio scrive una bellissima e intensa recensione del mio libro Sette sono i re. E' un libro che mi è molto caro perché è stato il primo ad aprire la collana Officina Marziani diretta da Michele Marziani, una della collane di Antonio Tombolini Editore, collana che conta ormai ventun titoli. L'originale della recensione è qui. Buona lettura!


Immagini. Come pennellate su una tela.
Pennellate nere su uno sfondo grigio. Il grigio del fumo, delle strade, delle macchine, delle fabbriche, della città.
Sette sono i re è lo spaccato di una società marcia, il retroscena della nostra bella vita, quello che c’è dietro e non vediamo.
Le parole, sapientemente utilizzare dall’autore, trascinano il lettore in un mondo in cui gli odori, i colori, le case, la terra, le persone puzzano di merda e di morte. Una morte seminata a suon di proiettili. Dove il protagonista alterna i ricordi di un suo passato da guerrafondaio ad un presente in cui la guerra la fa perché c’è qualcuno che lo paga per uccidere.
Molto interessante l’alternanza fra passato e presente (fra i ricordi del protagonista e la vita attuale), caratterizzata da un passaggio armonico delle forme verbali. La lettura non inciampa mai, scivola fra presente e imperfetto con lucida facilità.
Sette sono i re è un romanzo nero, racconta di uno strato sociale depravato in cui i soldi girano a mazzette, i crimini si comprano come prodotti di un supermercato e gli uomini obbediscono agli ordini di altri uomini, per denaro.
Il protagonista è un uomo che ha visto il dolore, il sangue, ha vissuto la guerra, ma sembra non riuscire a separarsi dall’idea di morte che ormai fa parte della sua vita. Nel borsone che porta con sé ha armi micidiali, che non risparmiano e non perdonano. Armi che uccidono a distanze impensabili. Che folgorano un uomo a bruciapelo senza dargli neanche il tempo dell’ultimo respiro.
Io tengo il metallo del San Luigi sotto al giubbotto. Sento il suo freddo contro la pelle. Il freddo del metallo. Il freddo che, per miracolo, diventa incandescente quando incomincia a sparare. Per miracolo. Il miracolo di un santo.
Storia che ti trascina dentro la storia, raccontata con uno stile particolare. Frasi brevi. Cortissime. Di una parola o due. Parole scelte, una per una. Con un lavoro sapiente di cesellatura.
Parole semplici e frasi che si ripetono danno alla lettura un ritmo incessante, inesorabile, come una scarica di mitra.

mercoledì 25 novembre 2015

Scrivere per i blog, di Lino Garbellini (Le Monnier)

Blog, contrazione del termine weblog che, come un reperto ritrovato ai confini dei mondi conosciuti, ci rimanda indietro a quel digitale e quantistico Tempo di Planck da cui si originò l’ultimo dei media elettrici, il web. Stazione di posta, fortezza Bastiani, rifugio, diario, magazine, mono o pluriautoriale il blog è parte integrante del magma, del caos, del mare infinito di internet. Negli anni quella contrazione terminologica si è declinata come gossip, fashion, food, lit e, sempre negli anni, più volte si è celebrata la sua morte (come altre morti illustri si celebrano ogni tanto, quella del romanzo, dei libri, dei giornali). Ma come un’araba fenice il blog è sempre risorto dalle sue ceneri. Il blog non è stato metabolizzato dai social network, non è stato azzerato e annullato, ma, come ogni medium ha fatto nell’inevitabile confronto con l’apparizione di altri media, si integrato con il web 2.0. Oggi il blog ha la vitale necessità di essere collegato a facebook, a twitter, a pinterest, a tumblr, ma è questo un collegamento virtuoso, un abbraccio non mortale bensì ancora una volta vivificante per questo medium nel medium che è il blog. Lino Garbellini nel suo Scrivere per i blog ha il merito di presentarci quello che è lo stato dell’arte del blog, fotografato e sviscerato in questo particolare attimo, attimo fermato nell’incessante divenire spaziotemporale del web. Un’agile guida, un piccolo manuale esaustivo di grande interesse. Forse tra un istante, nell’universo del web, tutto sarà diverso, tutto sarà resettato e trasformato e traslato in modi a noi ancora sconosciuti, ma in questo attimo leggete questo libro.
Un libro.
Scrivere per i blog, di Lino Garbellini (Le Monnier).

sabato 21 novembre 2015

Il quarto numero de Il Colophon


Da pochi giorni è online il quarto numero de Il Colophon, rivista di letteratura del coraggioso e innovatore Antonio Tombolini Editore. Questo numero è l'ultimo del 2015. Si intitola Sto parlando con te ed è dedicato al complesso rapporto tra scritture e letture, tra lettore e letture. In questo numero scrivo di Pier Paolo Pasolini nel quarantennale della sua scomparsa, intervisto il geniale e visionario Gabriele Frasca, recensisco due libri Con Borges e L'invenzione del romanzo. Inoltre c'è anche un mio racconto tratto dal mio libro Padania blues. Il tutto con la fantastica guida di Michele Marziani e l'iconografica professionalità di Marta D'Asaro. Buona lettura!

lunedì 16 novembre 2015

Intervista su informAle

Serve passione per parlare di libri. Serve passione, ma servono anche amore, forza e dedizione. Qualità che da sempre trovo nella libreria Le mille e una pagina, luogo che, per scelte editoriali e proposte letterarie, riesce a stupire piacevolmente anche un lettore "forte" come me. Laura Fedigatti, che con Lia Maffi è una delle due bravissime e professionalissime titolari della libreria, mi intervista per la rivista informAle. Abbiamo parlato di libri, di autori, di scrittura, di territorio (quel lembo di Piemonte lombardo, la Lomellina, che fa da sfondo a molto di ciò che scrivo). Buona lettura!



lunedì 9 novembre 2015

Il proiezionista, di Abe Kazushige (Calabuig)

Non soltanto la voce di Murakami Haruki giunge dalle arcaico-tecnologiche lande nipponiche. Non soltanto le mutazioni di Akira o l'erotismo di Æon Flux. L’editore Calabuig, nel suo viaggio tra i generi e gli autori della letteratura mondiale, fa pervenire ai lettori la gradita scoperta di questo Il proiezionista di Abe Kazushige. Una Tokio violenta, di una violenza efferata ma al contempo accettata, seme genetico di una società estrema che ancora fa i conti con i fantasmi di un militarismo nazionalista alla Yukio Mishima, erede della sottile e spietata società feudale di mikado divinizzati e samurai spietati, seme oggi intrinsecamente contenuto nella postmoderna dedizione al massacro di sette millenariste come la Aum Shinrikyo. Yakuza dalle teste rasate e boss che coniugano omicidio e affari, ragazzine dedite alla mercificazione di sé tra pornografia e love hotels, sale cinematografiche nella cui oscurità cercano di rendersi irreperibili ex estremisti di destra, bande di liceali minorenni intenti allo stupro collettivo e alla sopraffazione. Ecco la Tokio di Abe Kazushige, scenografia mirabilmente tarantiniana, con vie e centri commerciali a metà strada tra la infinita periferia losangelina e le minuscole case di legno di un Sol Levante che, dal bagliore mortale delle atomiche dell’agosto ’45, è da allora costretto a fare i conti con la fusione di ataviche ossessioni e devices ultramoderni. Siamo lontanissimi dalla patinata e lussureggiante parola di Murakami Haruki, così come siamo lontanissimi dalla simbolicità freudiana di manga e anime, e lo siamo a ragion veduta perché Il proiezionista è qualcosa di assolutamente nuovo nel panorama nipponico che osserviamo da lontano. Abe Kazushige ha la capacità di creare una nuova narrazione in cui banalità e orrore, stupefazione e accettazione si uniscono andando ben oltre ciò che siamo abituati a pensare del Giappone. Tra le asettiche vie di questa metropoli al contempo bladerunneriana e primaverile si appalesa tutto il sentire di un mondo che erroneamente ci illudevamo di conoscere. Leggendo Il proiezionista da oggi sappiamo che non è così.
Un libro.
Il proiezionista, di Abe Kazuschige (Calabuig).

venerdì 6 novembre 2015

Fuori di sé. Da Freud all'analisi del cyborg, di Augusto Iossa Fasano (Edizioni ETS)

Esiste un diaframma, un confine, un’interfaccia che è anche e soprattutto luogo di contaminazioni e di feedback, un’interzona che fonde e trasla quello che Gabriele Frasca definirebbe scambio di informazioni genetiche e non genetiche e che si pone tra l’inconscio di quella unità carbonio che è la macchina umana e l’universo esterno che questa macchina influenza e da cui è al contempo influenzata. Augusto Iossa Fasano esplora questo territorio di contaminazioni multiunivoche, questo cosmo in cui l’essere umano si muove e contempla le mutazioni che intersecano e trafiggono il corpo, la mente, le percezioni. Dalle definizioni di una mappatura necessariamente psicoanalitica e medica l’Autore prende le mosse per spingersi oltre i phildickiani Bastioni di Orione, seguendo la rotta segnata dai casi clinici con i quali da analista si è confrontato e si confronta, compiendo un viaggio attraverso la linea d’ombra che permea questi casi, giungendo a quel cuore di tenebra in cui l’oscurità è rischiarata dai bagliori di quelle astronavi in fiamme ricordate dall’androide di Do androids dreams of electric sheep mentre cerca di stipulare un armistizio con la sovrumana (auto)coscienza della infinita reiterazione della finitezza. E sono proprio quei bagliori che proiettano sullo specchio borgesiano, che si frappone tra il sé e l’universo, le ombre la cui osservazione e interpretazione conduce faticosamente la macchina umana a comprendere quale sia l’attimo in cui potrà, per una volta ancora, definirsi (in)finita nel benefico superamento della stupefazione prodotta dal confronto spietato tra la sua elastica fisicità e la rigidità forse mortale dei device e delle protesi, siano esse terapeutiche o anche e soprattutto esaltatrici di un potere che ci sorprende nel momento in cui quegli stessi device sembrano prendere il dominio sui loro stessi portatori. Ecco allora l’ostensione del rifiuto (il lancio) della protesi, messaggio estremo di una psicosi che cerca la verità, verità che sarà tale solo quando il cyborg affronterà il pensiero altrettanto estremo della provenienza e della genesi dei suoi ricordi, della sua memoria, del suo percepirsi immerso nella densità sorprendente di un universo della coscienza che si espande così come si espande l’universo quantistico delle particelle elementari. Ma è questa un’espansione le cui coordinate spaziotemporali sono determinate dallo stesso viaggiatore che è al contempo soggetto e oggetto, esploratore ed esplorazione, osservatore e osservato. Perché infiniti sono gli attimi della finitezza. 
Un libro.
Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg, di Augusto Iossa Fasano (Edizioni ETS).

martedì 13 ottobre 2015

Le stagioni di Zhat, di Sonallah Ibrahim (Calabuig)

Quella lettera greca che segna e denomina geograficamente la foce del Nilo, il Delta, delimita con la metropoli de Il Cairo lo scenario di questo romanzo di Sonallah Ibrahim in cui millenarie mutazioni portano oggi alla definizione di una narrazione che si snoda nell’Egitto contemporaneo attraverso le tre presidenze di Nasser, di Sadat e di Mubarak, trinità politica che demarca i decenni in cui si sviluppano le vite quotidiane dei personaggi. 
Zhat, figura femminile con tutte le sue gioie, i suoi dolori, le sue aspettative e le sue delusioni opera come delicato fulcro di una storia in cui la forte ironia dell’Autore scopre lentamente il manto propagandistico della storia politica, portando alla luce la fatica di vivere in una realtà complessa, caratterizzata dai contrasti religiosi, dagli arcaismi sociali ancora presenti, dal peso del neocolonialismo economico, dalla presenza della corruzione politica e burocratica. Zhat è prima bambina, poi ragazza, poi donna matura con marito e figli e parenti insopportabili e vicini ingombranti e compagni di lavoro supponenti, in un caleidoscopio di strade, di quartieri prima residenziali e poi fatiscenti, alle prese con la perenne crisi economica che deturpa il bilancio familiare e le aspettative future e con il rapporto forse amaro con un marito che si arrende alla vita mentre lei continua, malgrado tutto, a combattere. Con una narrazione che ricorda la grandezza onnicomprensiva di Dostoevsky e il tragico umorismo di Gogol, Sonallah Ibrahim segue l’intreccio delle vite, lo scorrere del tempo, la circolarità di avvenimenti che forse sono destinati a non avere mai un futuro di redenzione. Tra ogni capitolo si innestano brevi comunicati stampa di accadimenti sociali, politici, di corruttela, di prevaricazione di multinazionali statunitensi ed europee, di leader politici e religiosi che perseguono i loro privati interessi ammantandosi di propagandistici e artefatti proclami per il bene della nazione e dell’Islam, comunicati stampa che fondono la corposità di un romanzo che ricorda i classici dell’Ottocento con la rivoluzionaria tecnica del romanzo postmoderno, in una unione narrativa che trasfigura il romanzo stesso in specchio della società che racconta. Le stagioni di Zhat è romanzo sì, ma anche e soprattutto strumento di comprensione del mondo arabo, un mondo con cui da sempre l’Occidente deve confrontarsi. 
Fernand Braudel definì il Mediterraneo una “pianura liquida”. Leggere Sonallah Ibrahim ci permette di comprendere cosa si cela ai confini islamici di questa pianura.
Un libro.
Le stagioni di Zhat, di Sonallah Ibrahim (Calabuig).

lunedì 12 ottobre 2015

Leggere è più bello di scrivere

Tanti sono i laboratori di scrittura ma pochi sanno che una buona lettura è condizione indispensabile per una buona scrittura. La lettura è un'arte raffinata e per questo vi segnalo questo interessante laboratorio di lettura.


martedì 6 ottobre 2015

Il viaggio, di Murray Bail (Calabuig)

Una mirabile ibridazione tra significati, sentimenti, narrazioni, tra mitteleuropa e Australia, in una sorta di avvicinamento (quasi) impossibile tra mondi, parole, storie. La luminosa arsura di un deserto australiano che sta ai confini del mondo, colonizzato da città e abitanti che sono il ricordo di un passato che si è forse perso nel futuro e la racchiusa magnificenza di una Vienna che ospita le rimembranze di un passato di Felix Austria trasmutatosi con dolore accorto in quella Finis Austriae che Joseph Roth raccontò con tristezza assoluta e analitica, si confrontano, si osservano, si cercano, intuiscono una possibilità di comprensione che va oltre i confini, le città, le nazioni. Ambientazioni di un vecchio mondo a volte astioso nella difficile convivenza con splendori antichi che sono ormai passati inesorabilmente, a volte immerso suo malgrado nella interpretazione sofferta di autori come Thomas Bernhard, palazzi che contengono l’affastellamento di ricordi dal valore sentimentale e anche patrimoniale che improvvisamente si arresta di fronte a stanze dalla postmoderna asetticità, scenari che si fondono con gli stessi personaggi che quelle mura abitano. Un viaggio a bordo di una nave mercantile che ricalca rotte contemporanee che attraversano luoghi del colonialismo ottocentesco dalle reminiscenze europee, reminiscenze che comunque sono ai due stessi estremi di questo viaggio che è anche viaggio conradiano alla scoperta, o meglio, alla ricerca di una definizione, impossibile forse, di quella linea d’ombra che accompagna la vita di ogni essere umano. Un viaggio costellato dalle interpunzioni di tempi narrativi che si intrecciano come una partitura musicale. E l’oggetto atavico di un pianoforte rinnovato nella sua tecnica ai confini del nuovo mondo ritorna, per una nemesi delle cose prima ancora che della storia, al vecchio mondo che in lui si rispecchierà e giungerà alla negazione, comunque impossibile, di tutto il suo passato per mezzo di una performance dai toni delilliani e bolañiani in cui la distruzione dell’oggetto è catarsi impossibile di un intero continente che non riesce a emendarsi dalla sua storia. Forse solo l’amore che unisce un uomo e una donna rimane come eterno avvertimento che un embrione di speranza è possibile, sempre.
Murray Bail scrive un romanzo particolare, interessante, che riesce in quella difficoltosa missione di rappresentare il punto Omega in cui l’immenso si unisce all’attimo e che è forse la missione ultima della letteratura.
Un libro.
Il Viaggio, di Murray Bail (Calabuig).

mercoledì 16 settembre 2015

Epepe, di Ferenc Karinthy (Adelphi)

Dall’immaginifico giacimento letterario mitteleuropeo Adelphi scopre questo affascinante e misterico labirinto linguistico e fonetico in cui lemmi  e fonemi divengono protagonisti dell’eterno e babelico caos dell’umanità. 
La prefazione è di Emmanuel Carrère e, of course, va oltre i confini della prefazione classica per traslarsi essa stessa in opera che si allega al resto di questo romanzo che lo stesso prefatore definisce con deferenza “strano”. Visione profetica? Saggio? Pamphlet dai toni settecenteschi? Non va dimenticato il contesto geopolitico in cui Ferenc Karinthy scrive questo Epepe, l’Ungheria dei primi anni Settanta, repubblica popolare del blocco sovietico ma che da sempre, memore del mito dei terminali fasti asburgici da josephrothiana felix Austria che diventa finis Austriae, è “la baracca più allegra del gulag”. E da luogo squisitamente mitteleuropeo costretto a fare i conti con quella eterna vocazione alla dominazione euroasiatica di tutto ciò che si affaccia alle sue marche orientali, la sua capitale Budapest diviene epicentro della sanguinosa rivolta antisovietica del 1956 ed Epepe non può non essere inteso, nelle intenzioni del suo Autore, come visione futuristica di ciò che è già stato e al contempo profezia di ciò che sarà poi nel 1989, dalle folle pacifiche che violano l’immarcescibile e berlinese Checkpoint Charlie, al fuoco che avvampa gli interni di palazzi sedi di polizie politiche nella carpatica Bucarest. 
La tradizione letteraria, e filmica anche, che nasce al di là della churchilliana cortina di ferro negli anni di ferro della guerra fredda, si è sviluppata nonostante le fatiche ideologiche e i pericoli polizieschi ed Epepe, con quella sua apparente immagine di libro distopico, è al contempo summa e frammento, immagine e riflesso di una distopia che forse è stata più reale della realtà.
Un libro.
Epepe, di Ferenc Karinthy (Adelphi).

giovedì 10 settembre 2015

Il terzo numero de Il Colophon


E' da ieri online il terzo numero de Il Colophon. Rivista di letteratura di Antonio Tombolini Editore, diretta da Michele Marziani. Il tema di questa volta è Il segreto del bosco vecchio e il motivo e il suo svilupparsi li spiega qui il direttore.
In questo numero scrivo di Sebastiano Vassalli, intervisto Silvana Sperati, presidente dell'Associazione Bruno Munari e recensisco Pesca alla trota in America e Il caviale del Po.
Buona lettura!

venerdì 14 agosto 2015

Ferragosto con la Trilogia della Pianura

Ferragosto, data italicamente determinante e definitiva. Hai l'urgenza di una lettura? Sei al mare o in montagna o in collina, campagna, agriturismo, città d'arte, isole sperdute e solitarie? Non devi nemmeno andare in libreria, che poi a Ferragosto sono chiuse o magari nemmeno ci sono nel posto in cui ti trovi. Hai con te il tuo ereader? Ottimo! E' sufficiente collegarsi alla rete e alla libreria digitale che preferisci, che hai già frequentato, che ti fa uno sconto o che ti dà magari dei punti premio, e scaricare la Trilogia della Pianura in formato mobi o epub, tutti e tre i libri o, se vuoi, uno o due, poi vedrai tu se ti piace proseguire nella lettura. Sei libero di fare quello che vuoi, tranquillamente. Garantisce la collana Officina Marziani di Antonio Tombolini Editore.
Che dire di più? Buon Ferragosto!


lunedì 27 luglio 2015

Oggi la pianura è triste. In morte di Sebastiano Vassalli

Sebastiano Vassalli l'avevo incontrato cinque anni fa, a Pavia, in occasione di un seminario sull'editoria. Era in compagnia di Roberto Cicala, editore di Interlinea e suo profondo amico. Mia madre stava morendo e io, con la mia povera fede riposta nei libri, ero andato ad assistere a quell'incontro nella speranza di ottenere un momento di requie dalla mia disperazione. Gli avevo fatto avere la mia recensione del suo Le due chiese e lui mi disse che l'aveva già letta, inoltratagli dall'ufficio stampa di via Biancamano e che ne era rimasto molto contento. Ma la dissezione temporale degli avvenimenti mi fa ricordare ora che l'avevo già incontrato a Voghera, un anno o forse due prima, in occasione del conferimento del Premio Jean Giono, in quella  cittadina oltrepadana che, come la Lomellina e Novara, era uno dei territori di "nuovo acquisto" del Piemonte dopo la pace di Utrecht del 1713. Ed è proprio quella pianura che da Novara scende verso il Po, attraversando la Lomellina, con la ferita aperta e longitudinale dell'Agogna, a diventare il buen retiro dove Vassalli, genovese di nascita, si era rifugiato, tra gli odori del riso e le nebbie della pianura novarese, in quella posizione dell'anima che avrebbe poi descritto in due fondamentali libri editi da Interlinea, Terre d'acque. Novara, la pianura, il riso e Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo.
Nella terza parte (La parte degli editori) della mia trilogia de La parte di niente, che è in attesa di pubblicazione, c'è anche lui e, per quelle intersecazioni dei destini che solo i libri sanno dare, ho  consegnato qualche giorno fa la mia recensione de La chimera, che uscirà nel numero di settembre de Il Colophon. Rivista di letteratura di Antonio Tombolini Editore
Oggi la pianura è triste. Che la terra ti sia lieve Sebastiano Vassalli, scrittore immortale.

lunedì 20 luglio 2015

Traslochi, di Hebe Uhart (Calabuig)

Non solo Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Silvina Ocampo appartengono all’iconico universo della narrazione della pianura argentina e della sua genesi umana e letteraria che è Buenos Aires, città metaletteraria con il lunfardo e le vicende metafisiche di suoi porteňos. Altre visioni che coniugano pianura, metropoli e feedback narrativi tra anime e luoghi appaiono ora al lettore italiano. Calabuig, editore che sta compiendo un meritorio lavoro di scoperta di autori stranieri, lavoro ottimo anche dal punto di vista della traduzione, porta ora alla nostra attenzione Traslochi di Hebe Uhart. Autrice di racconti, forma espressiva che è caratteristica e segnale di quella brevità calvinista (nel senso dell’Italo Calvino delle Lezioni Americane) da sempre frutto della letteratura di quel Sudamerica che è fucina di storie letterarie che vanno spesso al di là dei loro stessi autori, la Uhart si esprime con Traslochi in un racconto lungo che varca la soglia del romanzo breve, diventando un unicum narrativo che risplende di rara capacità letteraria. Una saga familiare si scinde in altre saghe ancora, declinando quel lessico tragico e sognante che tracima nell’ossessione forse onirica di quel delirio che è orma, traccia della sofferenza umana. Nascite, morti, matrimoni, costruzioni e riattamenti di abitazioni, di stanze, di corridoi, aperture e chiusure di porte, finestre, delimitazioni di confini, di cortili, di proprietà si snodano in un divenire in cui le pietre e i laterizi, la calce e il cemento, si trasfigurano in potentissimi simboli freudiani della costruzione e al contempo della destrutturazione dell’inconscio collettivo di un destino, di una collettività, di una nazione che si sviluppa come luogo di immigrazione nascente dal sanguinoso e sanguinante confronto tra autoctonie amerinde, depositarie di millenarie sapienze, e conquiste europee custodi di apparati militari ed economici.
L’apparente linearità delle vicende che definiscono quest’opera si trasforma in via di accesso estremo che conduce il lettore oltre i semplici confini della quotidianità, accompagnandolo verso la complessa e mai conclusa definizione di un mondo che riflette se stesso e le sue eterne contraddizioni. La Buenos Aires borgesiana è qui sempre solo accennata, fondale mitico di speranze e delusioni, fortezza misterica che si staglia sullo sfondo di questi territori senza tempo, dipinti con i colori di una dolce dannazione pittorica che costruisce se stessa su inquietanti linee delimitate da luci e da ombre, da case e da deserti, da ossessioni e accettazioni dolorose, compiute e vissute con la stoica pazienza che si forma solo dalla sopportazione della durezza delle esistenze.
Traslochi non è soltanto una storia, bensì una vera e propria mappa della vita e dell’anima, mappa redatta con l’eterna forza di quella letteratura che soltanto il Sudamerica ci ha saputo dare e seguita ancora oggi a darci, con i suoi magici scrittori assisi nell’attesa di quell’eterna risposta celata nelle costellazioni dell’emisfero australe.
Un libro.
Traslochi, di Hebe Uhart (Calabuig).

martedì 14 luglio 2015

Anatomia del best seller, di Stefano Calabrese (Laterza)

Best seller, definizione magica che, come un programma dalla struttura multiforme e forse un po’ invasiva, è installato da sempre nel database universale del panorama editoriale e letterario. 
È un programma frendly, che può essere d’aiuto, oppure è un malware difficile da estirpare e che confonde dati e aspettative? 
Per i tipi di Laterza è appena uscito Anatomia del Best seller. Come sono fatti i romanzi di successo e il suo autore, Stefano Calabrese, redige un report esaustivo a proposito di questa definizione impegnativa. Dall’analisi delle classifiche internazionali dei libri più venduti, che prendono le mosse dall’azione più o meno nascosta dei giganti mediatici degli States (luogo germinativo, a torto o a ragione, di tutto l’immaginario contemporaneo che declina se stesso ormai con l’idioma anglosassone) alla nascita di quei casi che, come la saga di Harry Potter o le contaminazioni complottistiche di Dan Brown, passando attraverso le ossessioni di Murakami Haruki e senza tralasciare le ridondanze vampiresche e le sfumature più o meno grigie, il lettore trova nella lettura di questo saggio tutto quello che avrebbe voluto sapere sulla fabbrica dei best seller e anche di più.
Ma leggendo Anatomia del best seller si comprende soprattutto quale sia ormai il sottofondo produttivo che, come un fiume carsico pynchoniano che scorre nelle profondità di una metropoli bladerunneriana, l’Autore scopre e pone all’attenzione del lettore attento. Siamo ormai lontani non solo un paio di secoli ma addirittura anni luce dalle factory letterarie alla Dumas che, assiso su una poltrona nel suo Château de Monte Cristo, creava trame infinite dettandole a schiere di collaboratori e scrivani, i famosi “negri” di Dumas, ma siamo anche lontanissimi dalle equipe di ricercatori che circondano Ken Follet e le sue giacche di tweed (la prima, del valore di un migliaio di sterline, acquistata con i proventi del suo primo, neanche a dirlo, best seller), o dalla reiterata pesca d’altura e dai safari estenuanti di Hemingway. Perché ormai il brodo primordiale in cui si uniscono gli enzimi e le cellule che portano alla genesi dei best seller del terzo millennio trova le sue radici nella rete, nel web, nei social, nelle community in cui i lettori e i fan si trasfigurano a loro volta in autori di prequel, sequel e spin-off di altri best seller o nelle confraternite di sceneggiatori hollywoodiani costretti a una momentanea disoccupazione dalla chiusura anticipata di un serial, un brodo primordiale in cui e di cui le major dell’editoria globalizzata sono spettatrici e creatrici al contempo. Una sorta di universo contaminato e contaminante in cui le figure del lettore e dell’autore si fondono, come in una tassonomia letteraria bolaňiana (e, d’altra parte, i maligni sostengono che lo stesso successo dello scrittore cileno sarebbe stato pianificato da agenti letterari nordamericani, cosa che, comunque, sarebbe ancor più bolaňiana di Bolaňo).
Attenzione però, non è che tutto ciò che vive e prospera in questo universo in espansione porterà le dolci stimmate dei venti o trenta o quaranta milioni di copie vendute. Sarà necessaria l’attenzione e di un gruppo editoriale globalizzato e globalizzante, occorreranno interventi di editor dal tocco alla Re Mida, bisognerà creare nelle aspettative dei lettori la necessità di quell’opera, un po’ come faceva Steve Jobs, geniale demiurgo dell’urgenza di occorrenze non necessarie, senz’altro un combattivo team di pubblicitari dovrà far nascere impazienti attese centellinando notizie sui media, ma il primo istante di questo big bang editoriale nascerà dal quel Tempo di Planck che si cela nei segreti di uno storytelling che vive al di là dei suoi stessi creatori e dei futuri autori di best seller. 
Così come nel mondo delle comunicazioni telefoniche da anni il brand primario non è più quello delle compagnie di TLC, bensì quello delle softwarehouse domiciliate a Cupertino e dintorni, o nella piovosa Seattle o nella postbellica penisola coreana, così nel mondo editoriale globalizzato l’autore rimane celato dietro le quinte del vero brand che è ormai il titolo della sua opera una volta diventata best seller. 
Lunga vita quindi ai best seller e lunga vita anche a quei lettori che avranno la capacità di andare oltre il best seller di turno, magari scrivendone uno.
Un libro.
Anatomia del best seller. Come sono fatti i romanzi di successo, di Stefano Calabrese (Laterza).

mercoledì 8 luglio 2015

Il secondo numero de Il Colophon


E' online da pochissime ore (e completamente gratuito) il secondo numero de Il Colophon. Rivista letteraria di Antonio Tombolini Editore, rivista diretta da Michele Marziani. Ogni numero della rivista è tematico. Questa volta il tema è "La traversata di Milano", dedicato alle visioni letterarie della metropoli lombarda. 
In questo numero intervisto Antonio Moresco e Giorgio Scianna e recensisco L'Adalgisa di Carlo Emilio Gadda e Dies Irae di Giuseppe Genna. Inoltre Milena Miazzi scrive una bellissima recensione di Sette sono i re
Buona lettura!

lunedì 22 giugno 2015

Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, di Ngugi Wa Thiong'o (Jaca Book)

Ci sono domande che sono determinanti nell’universo della scrittura. Quale tipo di linguaggio è necessario utilizzare? Che rapporto esiste tra la condizione dei personaggi e lo stile con cui si esprimono? E come far convivere l’espressione linguistica delle varie epoche storiche con la contemporaneità dei lettori? Domande che sono alla base di quella struttura che dal Settecento si è formata con il nome di romanzo e che lo stesso Alessandro Manzoni si è posto per tutti i decenni di travaglio di quei Promessi sposi che sarebbero stati il primo romanzo in lingua italiana. Domande che si ripresentano con urgenza estrema soprattutto in quei luoghi che sono stati vittime della colonizzazione europea e che hanno avuto la necessità di sviluppare un linguaggio unificante non solo delle narrazioni ma, attraverso di esse, anche di un popolo. La lingua, la scrittura sono elementi determinanti dell’identità di un paese, di una collettività che, con esse, ribadisce la propria vitalità e la propria affermazione come entità vivente. È proprio questo è l’elemento dominante che sta alla base di questo Decolonizzare la mente. Ngugi Wa Thiong’o, scrittore e intellettuale africano che è stato incarcerato per l’attività da lui condotta per l’affrancamento linguistico della sua gente, descrive in questo saggio tutta l’odissea rivoluzionaria, culturale, narrativa ed editoriale che ha coinvolto un intero popolo per giungere al perfezionamento di una liberazione che non è mai completa del tutto finché non perviene anche alla emancipazione dalla lingua e dalla scrittura dei colonizzatori. Decolonizzare la mente è libro utilissimo per chi voglia conoscere gli aspetti meno appariscenti, e tuttavia non meno importanti, del processo della decolonizzazione africana, processo che, nonostante l’indipendenza ottenuta negli Anni Sessanta, è per molti aspetti economici, politici, sociali e culturali in attesa di un completamento ancora estremamente difficile. Il confronto tra tradizione orale e scrittura, tra teatro come espressione sociale e teatro come retaggio di domini culturali, tra romanzo che utilizza la lingua dei colonizzatori e romanzo che vuole nascere dalla lingua orale di un popolo alla ricerca del suo alfabeto scritto; queste sono le principali questioni che l’Autore affronta in questo saggio che si trasfigura in divenire storico di una nazione e di un continente. Così come Cirillo e Metodio affrontarono nel medioevo la creazione di un alfabeto slavo, così come ancor prima Ulfila cercò di fermare sulla carta la parlata dei Goti, ecco che ancora una volta, nell’infinito divenire della Storia, altri popoli sono alla ricerca della affermazione della loro identità culturale attraverso la scrittura, affrancandosi da un retaggio alfabetico e linguistico imposto proprio da quelle genti europee che mille anni prima sono andate alla ricerca di quella stessa liberazione dal dominio culturale dell’impero romano. In questo senso Decolonizzare la mente è libro illuminante. Nulla è mai nuovo sotto il cielo della storia dell’umanità e spesso i dominati di ieri divengono i dominatori dell’oggi.
Un libro.
Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana di Ngugi Wa Thiong’o (Jaca Book).

martedì 16 giugno 2015

Due romanzi di Marino Magliani

Ci sono libri che si appalesano all’universo della letteratura con una caratteristica unica e affascinante: l’inscindibilità. È questo un accadimento raro e prezioso che va sottolineato e rimarcato. È il caso di Marino Magliani che dà alle stampe nel 2014 Soggiorno a Zeewijk per i tipi di Amos Edizioni e nel 2015 Il canale bracco per i tipi di Fusta Editore. Due romanzi legati da atmosfere e cammini, da scoperte e rivelazioni, da vite complesse e sentimenti forti. Marino Magliani vive e scrive (e traduce) in Olanda, luogo che lui stesso designa come entità spaziotemporale in cui si esprime la sua vena creativa. Ma Marino Magliani è ligure, di quella Liguria di entroterra solitari e rocciosi, di quella Liguria di agricoltura strappata alla verticalità del mare e dell'Appennino, contraltare immaginifico di un’altra agricoltura, quella olandese, strappata invece all’orizzontalità invasiva del Mare del Nord. E questo rapporto tra verticalità e orizzontalità dei luoghi è da sempre fucina narrativa di Magliani. E così si arriva al Soggiorno e al Canale, due romanzi che si compenetrano, si avviluppano, si raccontano viceversa, in un viceversa che è anche e soprattutto rappresentazione del rapporto dell’Autore con queste due terre (l’Olanda e la Liguria) che sono palcoscenico in cui egli rappresenta i sentimenti
che vivono nelle storie che ci racconta con levità forte. Magliani è trasfigurato da un io narrante che percorre chilometri nel paesaggio estremo e ovattato del Nord Europa, sottolineando al contempo le differenze con il paesaggio acuminato e rimembrante del Ponente ligure, compiendo osservazioni di una fauna umana così differente nei costumi e negli usi e così uguale nella sua finitezza, un io narrante che viaggia
 come un picaro secentesco che conosce la pesante impenetrabilità della vita a la sua comunque tenue provvisorietà. Il Soggiorno e il Canale si rimandano vicendevolmente, con citazioni reciproche e divenire di personaggi ed emozioni, così come sa fare soltanto uno scrittore di razza che conosce il segreto delle parole, delle storie, delle anime. Con sapiente capacità narrativa l’Autore lentamente irretisce il lettore che a sua volta rimarrà preso nelle reti geniali di questi due romanzi fino a giungere a quei confini di una storia scissa e al contempo unitissima, confini che gli faranno apparire oltre ad essa i confini dell’anima di chi questa storia ha scritto. Paesaggi, luoghi, stagioni, costellazioni, donne, uomini, animali, tutti uniti nello sfondo gioioso e tuttavia malinconico in cui a un certo punto si staglierà la figura di Piet, doppelgänger borgesiano dell’Autore che, nel segreto delle sue carte, nasconde una mappa che è mappa di storie e di anime, mappa di terre, di mondi, di concatenazioni, di nostalgie che sono il patrimonio ultimo dell’umanità che cerca, da sempre, se stessa, mappa che poi è la sorprendente certificazione del destino dell’Autore. Il lettore concluderà la lettura di questi due romanzi nella profonda certezza che Marino Magliani sia uno dei migliori scrittori che abbia mai incontrato.
Due libri.
Soggiorno a Zeewijk, di Marino Magliani (Amos Edizioni).
Il canale bracco, di Marino Magliani (Fusta Editore).

lunedì 8 giugno 2015

Il mio nome è Frank de Jung, di Frank Gonella (Wingsberthouse)

Esiste una letteratura che esplora linee sottotraccia che si celano all’apparente divenire del mondo, una letteratura che nasconde tra le sue parole messaggi criptati il cui valore e significato va ben oltre quello della trama. Ne I tre giorni del condor l’agente Joseph Turner legge, arroccato in una nuovayorkese Fortezza Bastiani ben presto espugnata da tartari ellroyani che sono già millenaristico prodromo della "Trilogia sporca dell’America", romanzi noir e gialli con la consapevolezza che in essi è sicuramente nascosta qualche stringa esplicativa dei complotti nascenti nel pantano delle guerre segrete, mentre nello stesso momento, immerso nelle paludi indocinesi di confronti finali tra superpotenze, tra guerriglieri vietcong e ambasciate occidentali in odor di enucleazione, tra le pagine de L’onorevole scolaro Jerry Westerby, spia avventizia agli ordini del definitivo Circus di George Smiley, porta con sé una sacca piena di libri, tra gli altri quelli di Conrad, libri che all’occorrenza possono divenire baedeker essenziali di chi opera nell’underground del grande gioco dell’intelligence. 
Leggendo Il mio nome è Frank de Jung (nome dagli echi fiamminghi, di quel Belgio che è luogo di efferatezze coloniali, ah… il conradiano Cuore di tenebra, oggetto che si trasfigura nel magma esiziale di Apocalypse now, ah… quelle stragi congolesi dalle risonanze di "mondo movies" jacopettiani e di mercenari katanghesi che tingono di sangue i Sessanta e i Settanta) è naturale pensare che questo romanzo avrebbe immediata cittadinanza tra quelle opere che contengono tracce da interpretare, da decrittare. Frank Gonella, "nom de plume" di un autore che è ben più di un creatore di trame che sarebbe troppo facile definire noir, con sapienti pennellate che fondono ossessioni pynchoniane e report alla Marc Saudade di El Centro (romanzo che è pietra miliare ahimè troppo poco riconosciuta di un certo narrare che è stato bolaniano un ventennio prima di Bolaňo) compila una mappatura potente e irrinunciabile di quel "nada" che sottende all’orrore di un’umanità che è sì simile a Dio ma anche simile al principe degli angeli ribelli Lucifero. Il mio nome è Frank de Jung è libro, saggio, romanzo, rapporto consegnato a chi avrà la consapevolezza di comprendere, narrazione per nulla politically correct (finalmente!), vaso di Pandora in cui coabitano satrapi nascenti dalla dissoluzione del comunismo e figli di London Fields alla Martin Amis. Esoterico come un papiro celato negli anfratti di una mastaba sumera o come un caleidoscopio di inquietanti alfabeti scolpiti sulle rovine di una città Maya, questo romanzo deve essere bagaglio necessario per chi sa che la parola scritta è solo un labile confine che segna l’avanzata di universi quantistici dove gli esseri senzienti si trasformano in una unità inscindibile in cui vittime e carnefici cantano congiuntamente l’eternità del male.
Un libro.
Il mio nome è Frank de Jung, di Frank Gonella (Wingsberthouse).

mercoledì 27 maggio 2015

Il romanzo massimalista, di Stefano Ercolino (Bompiani)

È tutto molto semplice. Se siete lettori e cultori di autori come Thomas Pynchon, Don DeLillo, Roberto Bolaňo, David Foster Wallace non potete non leggere questo saggio. Il romanzo massimalista è mappatura necessaria ed essenziale di un mondo letterario che segna il divenire dello sviluppo della forma romanzo, è bussola irrinunciabile e da consultare con attenzione per verificare lo stato dell’arte di tutto, ma proprio tutto, quello che circostanzia la letteratura postmoderna. Stefano Ercolino, giovane studioso, crea un saggio imponente, composto con estrema limpidezza e che, come proclamerebbe lo slogan di un cartellone pubblicitario posto al margine di un’autostrada ubikiana che attraversa un paesaggio phildikiano, si legge come un romanzo! si legge tutto d’un fiato!
Stefano Ercolino ha dalla sua una rara capacità di narrazione degna di un grande scrittore. L’Autore appare al contempo saggista e romanziere, specialista e divulgatore. Da questa combinazione nasce un rapporto articolato e completissimo, definitivo e tuttavia aperto alle interpretazioni e per nulla settario, bensì in grado di illustrare le variegate posizioni della critica italiana e d’oltreoceano. 
Ho scoperto la letteratura postmoderna, in particolare Pynchon e DeLillo, negli Anni Ottanta, quando ancora il secondo era pubblicato in Italia solo da Tullio Pironti e finalmente, dopo anni di viaggi nei territori di quella parola scritta che cerca di andare oltre se stessa, trovo chi mi consegna una mappa che mi fa comprendere a che punto è il mio viaggio, da dove sono partito e dove forse arriverò.
I libri sono terre da scoprire e chi come me li esplora da tempo è sempre grato a colui che, nella sosta ristoratrice in un bivacco ai limiti del tempo e dei tempi, gli affida fugacemente l’esaustiva mappa di un intero continente.
Un libro.
Il romanzo massimalista, di Stefano Ercolino (Bompiani).

martedì 19 maggio 2015

Hotel Madrepatria, di Yusuf Atilgan (Calabuig)

Anatolia, terra ponte fra Asia e Europa, luogo di contaminazioni e ibridazioni storiche, epiche, territorio in cui si è compiuto uno degli eterni confronti tra Oriente e Occidente con la lenta ritirata del mondo bizantino di fronte all’avanzata dei figli di Osman. Anatolia, regione i cui altipiani videro per secoli la coabitazione bellica (cantata sia nell’ultima e pur sempre fulgida letteratura di Mistrà, finale despotato della romanità trasfigurata nella immobilità sacra delle icone dipinte da mano ultraterrena, sia nei poeti islamici che la dipingevano come porta necessaria alla conquista della agognata Mela Rossa, la Costantinopoli imperiale) tra duchi bizantini ed emiri turcomanni. Ed è questa Anatolia che Yusuf Atilgan sceglie come scenografia di questo Hotel Madrepatria, opera innovativa in cui l’Autore compone, con toni che vanno al di là di quelli del Novecento letterario, uno scrigno geniale in cui classicità, modernità, sperimentalismo si fondono dando vita a una narrazione che è paradigma di tutte le sfaccettature di quella espressione totalizzante che è il romanzo. 
Il viaggio nella follia che un uomo, rimasto come una sentinella solitaria a guardia di una fortezza ormai abbandonata, compie fino alla terminazione estrema di ogni vitalità è occasione di rappresentazione di squarci di vita quotidiana, raffigurazioni di estreme solitudini, ostensioni di eternità femminine portatrici di mortale sensualità, ritratti di stolidità mercantili e contadine, visioni di sotterfugi meschini, indifferenze poliziesche e burocratiche, maschilismi eterni.
Hotel Madrepatria è un romanzo affresco, reso mirabilmente attraverso l’ibridazione di tempi, di soggetti narranti, di punti di vista che ricordano certe potenti espressività linguistiche alla William Faulkner o certe disperate rese dei conti alla Albert Camus.
La rendicontazione maniacale degli attimi delle vite dei personaggi, delle loro angosce, dei loro ricordi, delle loro speranze si fonde con la raffigurazione della eternità dei popoli, della ineluttabilità dei destini collettivi, della ineludibilità dello scorrere del tempo e dei tempi. Yusuf Atligan scrive un romanzo assoluto traslando la singolarità di un accadimento che vive al confine tra le anime e i corpi in figurazione del dolore degli umani e, come il Graham Greene de Il nocciolo della questione, osserva e trascrive questo dolore con misericordiosa pietà, quella misericordiosa pietà che solo uno scrittore di razza sa come raccontare.
Un libro.
Hotel Madrepatria, di Yusuf Atilgan (Calabuig).

giovedì 14 maggio 2015

La trilogia della pianura

E' stato il mio primo romanzo, pubblicato nel 2008 da Manni. Poi è diventato anche il titolo di questo blog. Ora Notte di nebbia in pianura vive una terza vita edito come libro elettronico da Antonio Tombolini Editore nella collana Officina Marziani, diretta da Michele Marziani. E con Sette sono i re e L'odore del riso si unisce in una trilogia della pianura, tutta disponibile nella collana Officina Marziani. 
Buona lettura!


Con Notte di Nebbia in Pianura si completa la trilogia della pianura di Angelo Ricci



mercoledì 13 maggio 2015

Carlo Feltrinelli a Sette: Bisogna dare forma a una nuova idea di editoria


Come si scriveva un tempo, ricevo e volentieri pubblico questa anteprima dell'intervista a Carlo Feltrinelli che apparirà su Sette da venerdì 15 maggio.

Carlo Feltrinelli a Sette: Bisogna dare forma a una nuova idea di editoria
Quella degli anni d’oro è probabilmente finita per sempre
A 60 anni dalla fondazione della casa editrice un’intervista all’editore

Milano, 13 maggio 2016 - Carlo Feltrinelli parla a Sette in una lunga intervista del futuro dell’editoria e della crisi del libro partendo dalla storia della casa editrice che compie sessant’anni, a proposito dei quali dice: “Ci arriviamo con carte da giocare”.

La Feltrinelli è nata in un mondo diverso, sulle differenze rispetto agli esordi l’editore risponde: “Non vedo discontinuità. Tutto è cambiato. Ma resta la vocazione illuminista e l’insofferenza a farsi etichettare, l’irrequietezza di fronte alle convenzioni, i cliché… Per me la Feltrinelli rappresenta una proteina nobile di una società democratica”.

Sul prossimo futuro del mondo dell’editoria dice: “Quella degli anni d’oro è probabilmente finita per sempre. Parlo di fine anni Cinquanta, dei Gallimard, dei Rowohlt, dei Knopf. Vedo però un futuro interessante: abbiamo davanti l’orizzonte infinito e inesplorato dell’editoria digitale. Le due prospettive non si annullano, ma si sommano. Sono ottimista anche se apparentemente il libro perde peso specifico e la crisi si fa sentire”. 

Su come si potrebbe configurare l’industria libraria e quali saranno i suoi protagonisti, Carlo Feltrinelli risponde: “Il libro cartaceo non è destinato alla soffitta. Credo rimanga una voce importante nel dibattito pubblico, nella circolazione delle idee, nella scoperta dei talenti narrativi e letterari. Il libro rimane centrale per la nostra attività. Ma dobbiamo pensare anche ad altro, tentare di reagire a realtà che non c’entrano nulla con la storia dell’editoria per come l’abbiamo concepita fino ad ora, sperimentare nuove strade”. E sulle mosse “per dare  forma a una nuova idea di editoria, da cui non puoi prescindere se vuoi essere della partita” aggiunge: “Abbiamo pensato a un nuovo canale televisivo e stiamo immaginando un nuovo modello di centro culturale europeo con la Fondazione Feltrinelli. Stiamo acquisendo una casa editrice in Spagna, dalla fine del 2016 saremo proprietari di Anagrama, il più importante riferimento indipendente per la cultura in lingua spagnola. Abbiamo partecipato alla rifondazione della scuola Holden di Torino. Abbiamo immaginato una nuova generazione di librerie con una offerta di ristorazione di qualità. Dobbiamo reagire allo scacco che ci viene dalla crisi dei consumi, dal cambiamento antropologico nella fruizione dei contenuti, dall’atavico problema italiano della gente che non legge”.  E sul ruolo che avranno in futuro le librerie in Italia risponde: “Per noi è ancora fondamentale: una libreria, se fatta bene, ti dà uno sguardo, una prospettiva che neanche internet, che in teoria ti offre tutto, ti può dare”. Sulla Fondazione, se non sia un progetto obsoleto nell’era delle nuove tecnologie, replica: “Abbiamo un’ambizione: fare della Fondazione Feltrinelli un centro rilevante sul piano internazionale, sia per la ricerca, sia per la divulgazione e la formazione. Stiamo pensando a una grande casa delle scienze sociali, a Milano, nel 2016, in un palazzo fantastico disegnato da Jaques Herzog e Pierre de Meuron, che sia collegato al resto del mondo e a istituti di ricerca similari”.

A proposito delle nuove sfide che il mondo editoriale contemporaneo pone, conclude: “È molto faticoso ma ne vale la pena, ed è in gioco una parte dell’economia della conoscenza del nostro Paese”.

mercoledì 6 maggio 2015

Il Colophon è online!

Dal 5 maggio è online Il Colophon. Rivista letteraria di Antonio Tombolini Editore. Il direttore è il bravissimo Michele Marziani, l'editore è il coraggioso e innovatore Antonio Tombolini. La redazione e i collaboratori e tutte le altre indicazioni le trovate qui. Il Colophon è una rivista letteraria che coniuga lo stile della rivista classica con lo spazio digitale del web. Ha scelto infatti di utilizzare la piattaforma Medium. La leggete quando volete, dove volete, con ogni device ed è assolutamente gratuita.
In questo primo numero c'è qui una mia intervista a Marino Magliani, di cui presenterò venerdì 8 maggio alle ore 17.30, presso la libreria Le mille e una paginal'ultimo libro, Il canale bracco, mentre qui recensisco Il ritorno impossibile, di Marisa Fenoglio.
Inoltre, sempre in questo numero, la scrittrice italo-canadese Giulia De Gasperi scrive qui una bellissima recensione del mio romanzo L'odore del riso.
Buona lettura e rimanete in attesa del secondo mirabolante numero de Il Colophon.

lunedì 4 maggio 2015

Puttane assassine, di Roberto Bolaňo (Adelphi)

Per chi carica da sempre nel proprio database di lettore le parole, le opere, le ossessioni di Roberto Bolaňo questa uscita di Puttane assassine per i tipi di Adelphi non può che essere salutata con entusiasmo catartico. L’opera del grande cileno, che raggiunge livelli epici in quella manifestazione quantistica, atemporale, universale che è stata, è e sarà 2666, ha origini metaletterarie, oblique, affascinanti, traslate da quell’acido deserto tex-mex che si snoda tra il distrito federal, territorio narrativo di cupi tormenti che partoriscono anche l’immenso I detective selvaggi, e i prodromi di quella manifestazione malvagia, definitiva e iconizzata di quelle Ciudad Juarez e Sinaloa di satanici cartelli di narcos e di femminicidi sanguinosi che trasfigurano manifestazioni underground come la leggenda, forse più vera della finzione, degli snuff movies. Leggete Borges, leggete Cortázar ci ha sempre detto Bolaňo, per il mezzo di messaggi cifrati celati in interviste, saggi, recensioni, video antologizzati nell’archivio disumano di youtube. Luogo di introduzione alla scrittura bolaňiana, teatro rinascimentale della memoria, wunderkammer compendiata di ciò che Bolaňo sviluppò al di là di essa, Puttane assassine presenta, mostra, decifra al lettore quella magnifica e fatale, e omicida a sua volta, procreazione bolaňiana di storie, di ramblas assassine (come non pensare a Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce, a I dispiaceri del vero poliziotto, risma digitale incompleta trovata negli abissi postumi del suo pc e per questo ancor più bolaňiana), di citazioni misteriche, di letteratura pericolosa e clandestina, di tassonomie di autori, poeti e libri (spesso borgesianamente artefatti e per questo ancor più patrimonio di universalità di finzione che generano universi di realtà possibili, vedi La letteratura nazista in America) affastellati in una rincorsa verso la ricerca impossibile del libro mondo, di narrazioni assolute nella loro brevità, brevità a sua volta genesi di mondi letterari, come accade nella scrittura dell’aedo Borges. Bolaňo è demiurgo, creatore di un universo in cui i sistemi solari dei romanzi, delle fonti letterarie, dei poeti, degli scrittori, dell’underground magnifico e al contempo lussureggiante e lussurioso e terrifico e inquietante lasciano messaggi criptati che fanno intuire l’esistenza di una collettività di esseri narrati e a loro volta narranti, frutto di entità forse aliene operanti oltre lo spettro fisicamente conosciuto e conoscibile della letteratura degli umani. Puttane assassine è palinsesto rinascimentale raschiato il quale il lettore attento troverà tutte le ossessioni ripetute e divinizzate nel e dell'universo bolaňiano. Il racconto era di quattro pagine, forse lo scelsi per questo, per la brevità, ma quando l'ebbi finito ebbi l'impressione di aver letto un romanzo, così Bolaňo chiosa nel mistero infinito di questi racconti la mutante espressività definitiva e inquietante della parola scritta, messaggera di altrove ignoti che inviano dispacci di ribrezzo compressi nella consustanziale ostensione di materia oscura, che è al contempo onda e particella, che la sua azione di scrittore ha lasciato in eredità a noi, unità carbonio senzienti che ci riflettiamo in uno specchio senza respiro che segna le tracce di una consapevolezza di raccapriccio in cui artefici zoroastriani e gnostici ci mostrano la claustrofobica via per una salvezza che si è fusa in una fine che altro non è se non manifestazione estrema di quell’eterno principio che a sua volta è fine.
Un libro.
Puttane assassine, di Roberto Bolaňo (Adelphi).