lunedì 18 novembre 2013

Un sogno in rosso, di Alexander Lernet-Holenia (Adelphi)

Territorialità mitteleuropee fanno da sfondo a questo romanzo, così come potrebbero fare da sfondo a immaginari freudiani o, perché no, junghiani, gravidi di messaggi cifrati che reinterpretano l’orrore del divenire storico.
Lernet-Holenia ci ha abituato spesso nelle sue narrazioni a sfondi immaginifici che si trasfigurano in simboli, in icone dal sorriso enigmatico che si alterano in lasciapassare che potrebbero (possono) farci comprendere, in una affascinante commistione di ironia e tragicità, quelle cupe e oscure sinergie ideologiche che hanno svolto ruoli da protagonisti luciferini nelle crudeltà del secolo breve.
Basterebbe l’incipit, così rimarchevole di influssi forse meteorologici, e che con la mente ci fanno andare a quella perturbazione, simbolo di orrori mortali, che apre L’uomo senza qualità di Musil e, perché no, quella eroica Posizione di tiro di Manchette.
Quello sguardo verso inesauribili pianure galiziane, rutene, polacche che, a loro volta, rimandano a infiniti bassopiani ucraini che altro non sono se non il prodromo storico di raffinate efferatezze che albergano, come attese tartariche buzzatiane, nell’infinita pianura di un’Asia sterminata.
Da una parte le rimembranze feroci di rese dei conti infinite fra baroni sanguinari al comando di cosacchi zaristi e rivoluzionari rossi in seducenti battaglie nella Mongolia atavica e portatrice di cinesi millenarismi, dall’altra influssi ancora eterei di prussiane mutazioni, in marcia ormai verso accadimenti pangermanisti e hitleriani.
Nel mezzo un sinfonico chiacchiericcio di impotenza che ci ricorda quello dei nobili russi in attesa dell’arrivo napoleonico nelle prime pagine di Guerra e pace. Mentre su tutto e tutti aleggia una figura misterica e satanica di Anticristo, introdotta dalle profezie di uno scrittore fallito.
Lernet-Holenia, con Un sogno in rosso, descrive quel tragico sonno della ragione che da sempre ha generato mostri luciferini. E lo fa meglio di un trattato storico.
Un libro.
Un sogno in rosso, di Alexander Lernet-Holenia (Adelphi).

domenica 10 novembre 2013

Rien ne va plus: la recensione di Critica Letteraria

Carla Casazza scrive su Critica Letteraria una bella recensione a Rien ne va plus.


"Lo sai che io sono stato Dio?". Inizia in una sala da gioco televisiva, nell'atmosfera artefatta di sfavillante nulla, questo racconto di Angelo Ricci che fa parte della collana Inaspettati/ Unexpected di Errant Editions. Ebook brevi che propongono racconti da leggere nello spazio di un viaggio in metropolitana, nella pausa pranzo, in un intervallo di tempo breve in cui non si vuole rinunciare ad un buon testo compiuto. Partendo dal casinò virtuale, si intrecciano la vicenda dell'anonima conduttrice dall'avvenenza evanescente quanto una giocata on line, e quella del deejay Lawrence Sheik, famoso per le sue originali performance chiamate "barricate sonore", di cui resta un sospetto fino al termine del racconto: forma di protesta estrema attraverso la musica, o spudorata operazione di marketing mascherata con finalità ideologiche? Citazioni tra le righe trasformano il gioco narrativo in caccia al tesoro letterario; sono accompagnate dall'uso disinvolto di un lessico ricercato che diviene esso stesso divertissement come gli infiniti rimandi a persone e luoghi icone di un'epoca, gli anni '70 e '80. Un caleidoscopio vorticoso e colorato che rende perfettamente la frenesia creativa e allucinata, la sete di sensazioni che appaghino tutti i sensi, ma soprattutto la mente e, per alcuni protagonisti di quei decenni, ancora di più il conto in banca. Ne risulta un racconto visionario e assai criptico che di queste caratteristiche fa un punto di forza. Una sorta di ballata psichedelica evocativa e coinvolgente ."Faites vos jeux. Les jeux sont faits. Rien ne va plus".

Il testo originale della recensione è qui.

venerdì 8 novembre 2013

Il mantra dell'installazione pop

Accadimenti interessanti prendono forma nel rumore bianco dei canali della marea digitalizzata televisiva. Accanto alle eterne televendite, che da sole costituiscono una imprendibile fortezza postmoderna, c'è da tempo la reiterazione costante di alcune sitcom (I Robinson, Tre cuori in affitto), che hanno traghettato i Settanta verso gli Ottanta. Sitcom di cui vengono trasmesse le annate complete, dalla prima all'ultima puntata e poi, una volta finite, riprendono ancora, dalla prima all'ultima puntata, in blocchi di cinque, sei, dieci puntate a serata, in una narrazione senza soluzione di continuità. Una vera e propria installazione pop, un mantra digitale delilliano che ricorda la video installazione di Douglas Gordon, 24 Hour Psycho, che rallenta e dilata in ventiquattro ore il celebre film di Hitchcock e che è presenza muta e inquetante di Punto Omega.
L'impossibilità di definire da sempre il termine postmoderno si arresta di fronte a questa affascinante manifestazione. Il postmoderno siamo noi e le nostre vite sono installazioni pop.

lunedì 4 novembre 2013

Solaris, di Stanisław Lem (Sellerio)

Avevamo assoluta necessità di questa traduzione integrale. Noi, che da sempre abbiamo cercato nella fantascienza quelle impronte, quelle tracce che ci avrebbero senz’altro condotto al tentativo, forse titanico, di comprendere il presente. Ricordi cinematografici sostengono questa opera dalla lettura irrinunciabile. Le atmosfere rarefatte di Tarkowskij che vengono poi riprese dall’hollywodiano Soderberg e scopriamo (e ci stupiamo di questo e forse non dovremmo), nella postfazione di Francesco M.Cataluccio che Lem preferiva il secondo al primo, in una rivelazione che ci fa comprendere molto di quello che credevamo di sapere, che ci illudevamo di conoscere di quella fantascienza altra che, come quella dei fratelli Strugackij (altri oggetto tarkowskijani con il loro Picnic sul ciglio della strada divenuto l’immenso Stalker) scriveva quasi in opposizione semantica e sintattica alle space operas degne di un western alla John Ford e alle saghe asimoviane debitrici del Decline and fall of the Roman Empire di Gibbon.
Colossale affresco della sofferenza della psiche umana, Solaris va ben oltre l’essere soltanto un romanzo. Solaris è la zona misterica della letteratura, tra quei rimandi borgesiani a infinite biblioteche, enciclopedie e raccolte di articoli sulla Solaristica, che riprendono a amplificano il desiderio inappagato e inappagabile della totale conoscenza (maledizione tipicamente umana) e quella tassonomia fantastica di autori e opere che anticipa di molto il Bolaňo di La letteratura nazista in America.
Luogo inafferrabile a qualsivoglia definizione letteraria, Solaris è l’ostensione anatomica dell’infinita insondabilità della mente umana.
Come disse una volta Lem, nella fantascienza c’è molta spazzatura e, qualche volta, del genio. Stanisław Lem rappresenta senza ombra di dubbio il genio.
Un libro. 
Solaris, di Stanisław Lem (Sellerio).

sabato 2 novembre 2013

L'acino fuggente, di Enrico Remmert e Luca Ragagnin (Laterza)

Esiste una linea narrativa che, spargendosi dalla parola scritta fino al mare infinito del web, inizia dall’imprescindibile Ermanno Cavazzoni e lentamente scende a valle, attraversando Paolo Nori, Alessandro Bonino e arrivando a lambire Enrico Remmert e Luca Ragagnin. È la linea espressiva dei fous littéraires, dell’immagine felliniana, della furbesca ingenuità del Bertoldo, della tragicomica vitalità delle maschere della Commedia dell’Arte, che vive in un eterno e sanguigno paesaggio narrativo che spesso è geniale, altre volte un po’ stucchevole, ma comunque c’è e lascia il suo segno.
Remmert e Ragagnin sono vittime e carnefici al contempo di questa linea narrativa che prendono e fanno combaciare con un paesaggio e un territorio che è quello di quel Piemonte che diventa Monferrato, Langa e Roero. E la cartina della loro poetica diventa così magistralmente la stessa cartina di un territorio, nella consapevolezza affascinante, e che gli Autori dimostrano, che una mappatura narrativa è anche la mappatura di un luogo e viceversa.
Geniali sì, Remmert e Ragagnin, ma anche un po’ stucchevoli, in quella narrazione che, a farsi prender troppo la mano, diventa maniera e si sente che manca comunque un Beppe Viola che fa il verso, ma lui lo faceva quasi trasfigurandosi, al Gioann Brera.
L’acino fuggente è un’opera interessante ma incompiuta, un po’ come quelle che son belle sì, son coinvolgenti sì, ma son un po’ dolci e un po’ fresche e manca sempre un qualche cosa, un po’ come un kiwi che non sa se esser lampone, fragola o limone.
Un libro.
L’acino fuggente. Sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero, di Enrico Remmert e Luca Ragagnin (Laterza).