martedì 29 ottobre 2013

La caduta, di Diogo Mainardi (Einaudi)

Come un Borges intento a costruire un gioco di specchi sui confini della parola o un Bolaňo immerso nella costruzione di un libro-universo che nasca dalla carnalità della vita, così Diogo Mainardi edifica una struttura narrativa dove circolarità temporali, drammi personali, tracce pittoriche e letterarie, pop e postmoderne danno alla luce un libro-romanzo-saggio dalle tonalità particolari e dalle forme genialmente originali.
Perché l’Autore trasfigura la tragica fatalità che è all’origine di questa narrazione in matrice produttiva di eventi e di ricordi e di connessioni, eventi, ricordi e connessioni che sono personali e anche patrimonio condiviso dell'umanità tutta, quasi che la stessa parola scritta possa divenire macchina per ricongiungere altre connessioni, connessioni che hanno bisogno di essere curate e coltivate.
Libro-simbolo che diventa congegno, soggetto e oggetto di rimembranze, libro-medicina che come strumento nelle mani di uno sciamano letterario si trasforma in veicolo di nessi, legami e concatenazioni, La caduta trae la sua forza, la sua potenza narrativa, proprio dalla sua impossibilità di essere incasellato in una definizione letteraria, impossibilità che diviene momento estremo di libertà compositiva.
I 424 passi che compongono questo testo sono, nel contempo, i passi dell’Autore, i passi del figlio, i passi dei lettori e i passi di una composizione narrativa dove la parola e le connessioni letterarie, artistiche e culturali convergono verso la creazione di un romanzo universo che come le Wunderkammer cinquecentesche si pone l’obbiettivo di essere territorio di composizione del tutto, attraverso l’esplorazione di quel luogo mediano che sta a metà strada tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e che è il momento di comprensione del mistero della vita, così come avrebbe immaginato Giordano Bruno.
Affascinante e misterico allo stesso tempo, La caduta va ben oltre ogni definizione, creando a sua volta l’esempio di una nuova e forte forma narrativa.
Un libro.
La caduta. I ricordi di un padre in 424 passi, di Diogo Mainardi (Einaudi).

mercoledì 23 ottobre 2013

La prossima battaglia. Interviste con Roberto Bolaňo (medusa)

Un altro tassello si unisce a quella struttura narrativa poliforme e caleidoscopica che è l’opera di Roberto Bolaňo. Una struttura che ha la particolarità di vivere non solo dell’imponenza di ciò che il grande scrittore cileno ha composto, ma anche di quello che su di lui si scrive. Le edizioni medusa pubblicano questa raccolta di interviste, a cura di Gabriele Morelli, che aggiungono importante materiale per la comprensione della narrazione di Bolaňo.
Interviste uscite su giornali cileni nel periodo compreso tra il 1998 e il 2003, periodo in cui Bolaňo era ormai, appunto, Bolaňo.
Come in un racconto di Borges l’autore è conscio ormai di essere divenuto tutt’uno con la propria opera, quasi prigioniero di un destino letterario certamente trionfale, ma osservato dallo stesso con volontà quasi maniacale di precisazione, di affermazione, di alterazione, nella ricerca di quella concisione di enunciazioni che possano avere la forza di rimarcarne la personalità.
È un Bolaňo ancora una volta affascinante e decisivo quello di queste interviste, un Bolaňo se possibile ancor più consapevole di quello che lui stesso definiva la pericolosità della letteratura, intesa non come esercizio di stile, bensì come ricerca di quell’universo della parola scritta che vive nell’eternità al di là dei di ogni libro, al di là di ogni autore.
Se per E. M. Forster la letteratura era un paesaggio, un luogo, un territorio, per Bolaňo la letteratura è un Leviatano, nato per volere di Dio ma comunque associato anche al demonio, e la parola scritta diventa quasi una danse macabre dove lo scrittore è vittima e carnefice, dannato e demiurgo nel contempo.
Un libro da leggere, un altro strumento di fondamentale interesse per tutti i bolaniani.
Un libro.
La prossima battaglia. Interviste con Roberto Bolaňo. A cura di Gabriele Morelli (edizioni medusa).

martedì 22 ottobre 2013

La bellezza delle cose fragili, di Taiye Selasi (Einaudi)

Linee sottili ma temprate come l’acciaio, l’acciaio della sofferenza, del rimorso, delle difficoltà dell’anima, uniscono trame che fondono l’intima tenerezza dell’esperienza e la difficile genesi delle scelte, che il più delle volte, più che volute o cercate, sono subite e imposte, con le asprezze di vite avvolte, loro malgrado, dai mutamenti di un divenire non scevro dalle circostanze e dagli sconvolgimenti sociali, politici e storici della collettività.
Un’odissea interiore, somma dell'interiorità di altre odissee geneticamente legate, che va a ricomporre le tessere di uno sfaccettato mosaico (e di un lessico) famigliare e snoda il suo percorso (i suoi percorsi) tra i colori di un grande affresco della contemporaneità, in cui le tinte amorevoli della dignità e della compassione si amalgamano con le tinte forti e sanguinanti di un dolore frutto di ferite irrimarginabili.
Piani narrativi e temporali che intersecano se stessi, nella ricerca faticosa di una ricomposizione affettiva in cui la struttura delle parole e gli stilemi sono strumenti di una lenta indagine dell’inconscio, di una ineludibile rincorsa, sofferente e vulnerata, verso un difficile orizzonte, verso un traguardo forse possibile, verso un luogo in cui tutte le piaghe potranno essere un giorno, chissà, in qualche modo lenite.
Dispiegata tra due continenti, l’America del sogno, delle opportunità, del valore riconosciuto, ma anche delle inumane durezze di un capitalismo primitivo e darwiniano e l’Africa, l’Africa che è terreno di conquista e anche vittima sociale e politica di quelle durezze e di quelle tragicità imposte proprio da quell’Occidente che sogno e opportunità è solo in apparenza, La bellezza delle cose fragili si mostra come un’epifania del presente, di un presente che fa delle contraddizioni e dello sfruttamento la sua atroce bandiera, imbelletata ancor più crudelmente dalla ineluttabilità delle disuguaglianze spacciate per traguardi di una modernità a uso e consumo dei pochi e a perenne danno dei molti. Forse sarà proprio salvando la bellezza delle piccole e fragili cose dell'anima che troveremo un pretesto per andare avanti.
Taiye Selasi ci dona questo affresco dai toni dostoevskijani. Nadine Gordimer ha ora una erede letteraria.
Un libro.
La bellezza delle cose fragili, di Taiye Selasi (Einaudi).

martedì 15 ottobre 2013

Morti di fama, di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini (Corbaccio)

Sì, tutto vero, purtroppo. Tutto documentato. Lo aveva già scritto Carlo Formenti qualche anno fa (forse con meno descrizioni da Mondo Movie alla Gualtiero Jacopetti). Epater le bourgeois, ça va sans dire. Siamo tutti marionette, morti di fama, disposti a venderci per un piatto di lenticchie e forse ancor meno. Prigionieri di un’assurda matrice, siamo cani di Pavlov che allegramente producono contenuti, arricchendo multinazionali digitali fondate e dirette da imberbi adolescenti dallo sguardo ammaliante e le tasche piene di dollari e che sembrano personaggi di un plot postmoderno dagli echi delilliani. I tenutari dei blog letterari portano il cervello all’ammasso, ipnotizzati dai luciferini pifferai di Hamelin delle case editrici, assediate dal disastro e che li vedono non come avanguardie, bensì come ultime spiagge (parole degli Autori). I selfpublisher sono inconsapevolmente al servizio di qualche algoritmo misterioso e gli ebook contan poco o nulla. Inquietanti fenomeni da baraccone siliconati popolano lande digitali, spargendo visioni di se stessi come gli scorticati di Fragonard.
È una vita difficile, proclamava anni fa Tonino Carotone o, come già nel 1914 cantavano i fanti inglesi, le cui trincee di morte sconvolsero ben più di un membro degli Inklings, it’s a long way to Tipperary.
Peccato che siamo ancora forse al giuseppinismo o a Napoleon Duarte che voleva cambiare dall’interno il Salvador mentre gli squadroni paramilitari gli rapivano la figlia, o al salotto settecentesco dove intellettuali certamente illuministi danno comunque consigli al sovrano borbonico o asburgico di turno (e anche in quell’epoca non è che Voltaire fosse una mammoletta, editorialmente parlando, vedi Il futuro del libro, di Robert Darnton). Il problema è sempre quello: capire da che parte della matrice siamo schierati, anche se abbiamo fatto nostro il motto di Andreas Baader, Ulriche Meinhof  e Gudrun Ensslin, battere cioè la borghesia con i suoi propri mezzi (e infatti Morti di fama ha un tumblr e un indirizzo gmail).
Forse tutti noi, (autori del saggio e lettori) dovremmo inghiottire la famosa pillola rossa.
Un libro.
Morti di fama, di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini (Corbaccio).

Zona Uno, di Colson Whitehead (Einaudi)

Ci sono sempre interzone che definiscono momenti di passaggio, luoghi che trasmutano il conoscibile in inconoscibile, eventi che nascondono, tra le pieghe del banale divenire quotidiano, una porta che si apre su paesaggi infernali. L’”Ultima Sera”. È questo l’attimo spaziotemporale in cui la vita del divenire quotidiano si trasfigura improvvisamente in sanguinaria icona dipinta da un millenarista spietato che riecheggia gli autodafé pittorici e i mondi alla rovescia di Hieronymus Bosch o di Bruegel. È questo l’accesso luciferino che Colson Whitehead sceglie per abbattere e riscrivere la storia delle abitudini reiterate di un mondo e di un immaginario che apparivano fin troppo scontati nella loro fiduciosa e incrollabile staticità.
Orde chimeriche e mostruose battono ormai le vie di campagne e di metropoli. Fortini e palizzate evanescenti sorgono a delimitare i confini di una certezza che altro non ha di suo se non la procrastinazione preagonica della fine imminente. Luoghi destinati a delimitare i confini culturali di un occidente globalizzato sono ormai soltanto campi di battaglia tra un’umanità rarefatta e gli eserciti di Gog e Magog.
E questa apocalisse scioglie lentamente nell’acido di una scrittura cadenzata tra l’interiorità della follia e l’esteriorità dell’orrore ogni vacua certezza. Relitti delilliani di vite postindustriali (il web ormai silente, come un eterno rumore bianco di orrore; pc, stereo e televisori al plasma che nulla più trasmettono se non la loro desolazione di rottami tecnologici; antibiotici senza effetto e supermarket che grondano cibo marcescente; ristoranti alla moda ormai abbandonati e trasformati in avamposti militari di una resistenza senza speranza; icone metropolitane che si trasfigurano in estremi Checkpoint Charlie) vengono travolti dall'incedere inarrestabile di incubi postmoderni che finora  albergavano silenti nella iconografia in bianco e nero di George A. Romero. Zona Uno è il territorio della battaglia finale, è l’Armageddon alle cui pendici si raduneranno alla fine dei tempi tutti i re della Terra in attesa della morte.
L’io narrante di Io sono leggenda è impazzito, ha imbracciato un Ak 47 e ha fatto irruzione nella abitudinaria follia dell’universo postmoderno di DFW e di DeLillo. E allora l’”Ultima Sera” non ha più potuto celare alcuna speranza, trasfigurandosi in resa dei conti estrema.
Un libro. 
Zona Uno, di Colson Whitehead (Einaudi).

martedì 8 ottobre 2013

Gare de Nice-Ville. Il viaggio (Errant Editions)

Le stazioni sono luoghi che abitano un punto mediano delle nostre vite. Luoghi di attese, sogni, desideri, illusioni. Luoghi che fondono presente, passato e futuro. Simboli di scardinamento e di incardinamento, di noia e di flussi di coscienza, di gioia e di odio.
Errant Editions crea il progetto Gares/Stations (qui il tumblr dedicato), riservato al racconto di queste affascinanti e forse misteriose intersecazioni.
Ho scritto un ebook per questo progetto. Si intitola Gare deNice-Ville. Il viaggio. Mi piace Nizza, mi piace quella ibridazione di luoghi, posture e pietre che è quella zona di confine che racconta la fine del Ponente ligure e l’inizio della Costa Azzurra e che presto si fonde negli aromi della Provenza. Luoghi di mare, certo, ma soprattutto luoghi di monti arsi e definitivi, di contaminazioni di vite e di destini. Forse ho tentato di comporre una narrazione che si avvolgesse in quella che viene definita letteratura erotica, non lo so. Quello che mi premeva era di cimentarmi, per la prima volta, con un io narrante femminile.
Che dire? Buona lettura, o meglio, buon viaggio

mercoledì 2 ottobre 2013

#PointLenana - Intervista a Wu Ming 1

Nella serata di martedì 1 ottobre, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara hanno presentato Point Lenana a Pavia, a Spaziomusica. Prima della presentazione ho rivolto alcune domande a Wu Ming 1.

Point Lenana. Come nasce questa collaborazione narrativa tra Wu Ming 1 e Roberto Santachiara?
Nasce da un’intuizione folle di Roberto Santachiara che mi fece leggere Fuga sul Kenia, di Felice Benuzzi e mi disse che, a questo proposito, mi doveva proporre una cosa. Ho letto quel libro e mi è piaciuto subito. Fuga sul Kenia era una sorta di ossessione che da tempo accompagnava Roberto. C’erano da scoprire e ricostruire accenni, punti di contatto, momenti nascosti e a volte criptici del passato di Benuzzi. Fuga sul Kenia rappresentava una specie di “evento matrice”, un evento che poteva aprirsi su altre storie, altre narrazioni. Roberto aveva bisogno quindi di un narratore che sapesse muoversi tra gli archivi, le storie, i documenti. E poi mi ha proposto di andare con lui sul monte Kenya. Da questi fatti nasce la collaborazione che ha portato alla stesura di Point Lenana.

Come avete collaborato, in senso propriamente tecnico, tu e Roberto Santachiara?
Roberto è stato il creatore, il portatore di questo “evento matrice”. Ha animato la volontà di giungere a questa narrazione. È stato sempre presente e sempre molto vicino a questa creazione. Ci siamo continuamente confrontati. Io mi sono fatto carico dell’onere dell'organizzazione e della stesura in senso narrativo.

Il collettivo Wu Ming, penso a quello che teorizzate da sempre, come per esempio nel vostro saggio New Italian Epic, interpreta il divenire storico trasfigurandolo in quello che definisce “sguardo obliquo”. Come si incardina Point Lenana in questa definizione?
Point Lenana è l’apoteosi dell’obliquità. È l’opera che inizialmente ha lasciato più perplessi diversi lettori "storici", poteva sembrare una bizzarria. Una serie di storie incastonate le une nelle altre e che ha dovuto in qualche modo perforare la membrana, il feedback che c’è tra noi e la comunità dei nostri lettori. Point Lenana è il frutto di quattro anni di lavoro fitto. C’era la necessità di risolvere problemi di montaggio, di coordinamento tra le storie, tra i piani narrativi. Point Lenana rappresenta appunto quel nostro “sguardo obliquo” sul Novecento. Attraverso la storia di Felice Benuzzi raccontiamo l'irredentismo, il fascismo, il ruolo dell'Italia nella seconda guerra mondiale, la guerra fredda, il colonialismo.

Quanto per i Wu Ming è importante la ricerca dei punti sconosciuti, delle interzone, di quelle che si possono quasi definire fratture spaziotemporali del divenire storico?
Per noi sono luoghi e momenti fondamentali ai fini di quello che definiamo lo “sguardo obliquo”. Raccontare la grande storia attraverso le piccole storie. A differenza dei romanzi ucronici, che presentano una realtà storica completamente alternativa, noi scriviamo romanzi ucronici potenziali. Raccontiamo vicende che si sviluppano in quei momenti storici nei quali tutto può ancora accadere, biforcazioni temporali in atto, dove potenzialità in divenire possono ancora evolversi verso differenti direzioni.

Nelle vostre opere trovano spazio contaminazioni e ibridazioni letterarie, storiche, narrative. È questo il traguardo a cui doveva arrivare il romanzo dal suo punto di partenza, quello cioè del romanzo dell’Otto e Novecento?
È difficile dirlo perché la definizione stessa di romanzo è diventata sempre più inclusiva. Nel Novecento, per esempio, vengono definiti romanzi opere che invece non sarebbero state definite tali nell’Ottocento. Il canone romanzo si è ampliato e oggi la definizione della sua struttura è molto sfuggente. La definizione di questa categoria è ancora aperta e in continua mutazione anche spaziotemporale. Pensiamo a un romanzo del Settecento come il Tristram Shandy di Sterne, che ha caratteristiche simili a certe avanguardie che sono apparse solo due secoli dopo. Io stesso non saprei come definire Point Lenana, non mi sentirei di etichettarlo, di inserirlo in una categoria. L’importante è comunque raccontare storie. Con qualunque mezzo.

Mi pare di ricordare che i Wu Ming lavorassero a un nuovo romanzo, un romanzo che prendeva le mosse da un’altra interzona storica, gravida di sviluppi e di sguardi obliqui: la rivoluzione francese. A che punto è questo progetto?
Lo consegneremo a dicembre e, se tutto va bene, uscirà ai primi di marzo del 2014. E' un romanzo su ipnosi e Terrore (il Terrore robespierriano). Uscirà sempre per i tipi di Einaudi Stile Libero e si intitolerà L’armata dei sonnambuli.