Piersandro Pallavicini (Vigevano 1962), lavora come ricercatore nel campo della Chimica supramolecolare, presso l’Università di Pavia. Dopo una lunga militanza nel campo delle riviste di musica underground e fumetto, intorno alla metà degli anni novanta ha cominciato a pubblicare narrativa nell’area delle nuove riviste letterarie. Nel 1998 è uscito il saggio-cronaca Quei bravi ragazzi del rock progressivo (Theoria). Nel 1999 ha esordito nella narrativa con il romanzo Il mostro di Vigevano (Pequod). Dal 1997 si è dedicato anche all’analisi della nuova scena letteraria italiana, collaborando con riviste come "Pulp", "Addictions", "Versodove", "Palazzo Sanvitale", "Fernandel". Ha fatto parte della formazione originaria di Nazione Indiana. Nel 2002 ha pubblicato la raccolta di racconti Anime al Neon (Fernandel). Con Feltrinelli ha pubblicato i romanzi Madre nostra che sarai nei cieli (2002), Atomico Dandy (2005) e African Inferno (2009). Nel 2010 è uscito il romanzo A braccia aperte, edito da Verdenero.
Collabora con "TuttoLibri", il supplemento culturale del quotidiano "La Stampa".
Piersandro, tu sei sempre stato molto attento al panorama della espressività narrativa. E, a questo proposito, voglio citare un tuo saggio del 1999 Riviste anni ’90. L’altro spazio della nuova narrativa (edito da fernandel), nel quale illustravi un vero e proprio universo, forse parallelo a quello delle case editrici. Oggi, secondo te, quel mondo si è riversato nel web? I blog letterari, quelli dei singoli autori o quelli delle riviste letterarie che dalla versione cartacea sono passate (più o meno forzatamente) alla versione online, sono ancora in grado di svolgere una funzione attiva e propositiva per quanto riguarda la scoperta di nuovi autori?
Non vorrei deluderti ma ho smesso di guardarmi intorno alla ricerca di dove nascano le novità. Non che non mi interessi più o che non mi sembri interessante quel (poco) che vedo. E’ che non ho più tempo. Quindi posso darti un parere che si ferma a qualche anno fa (e alle poche incursioni che faccio oggi nel mondo dei blog/webzine). Il punto, ovvio, è che la fatica che si fa per farsi un blog e pubblicare sé stessi o altri è talmente imparagonabile a quella che si faceva (e si fa) a fare l’analogo su carta, che è inevitabile metterla in questa prospettiva: ognuno è libero di farsi la propria webzine/blog e non c’è filtro, dunque c’è un’inflazione di solipsismo e bassa qualità. Poi rimangono i casi che funzionano (per esempio Carmilla, Primo Amore, per esempio il blog di un bravo scrittore e intellettuale come Giorgio Fontana, per esempio il blog su cui pubblichiamo queste righe…) ma temo che per la più parte si abbia a che fare con semplice spazzatura. Tra la quale è difficile e faticoso andare a cercare le cose buone, quindi non so quanto bene faccia tutta questa libertà di “pubblicare”.
Ti faccio una domanda che si collega in qualche modo a quella precedente. Stiamo assistendo ad una affermazione (lenta per il mercato italiano, ma più accentuata negli Stati Uniti) dell’ebook. Alcuni autori italiani stanno già confrontandosi con questa realtà (penso ad Alessandro Zaccuri che ha appena pubblicato Il deposito con la 40kBooks). Credi che il libro digitale muterà la percezione dei lettori? Credi che muterà lo stesso stile degli autori o pensi anche tu, parafrasando Stefano Bartezzaghi, che sia del tutto inutile infarcire romanzi e racconti con i link?
E’ del tuttto inutile infarcire romanzi e racconti con link (più o meno tanto quanto è inutile fare romanzi e racconti con le note. Ce l’ha fatta Arbasino ne L’Anonimo Lombardo, ma c’era un bel coefficiente di sperimentalismo, erano gli anni giusti per farlo, e Arbasino era il genio che era. Ci abbiamo riprovato un po’ tutti, affascinati da quel sommo esempio, e credo che tutti alla fine abbiamo rinunciato a portare la cosa a compimento, perché sentivamo che non funzionava).
A parte, però devo anche ammettere che sia inevitabile che l’e-book muti almeno in parte la percezione del lettore. Pensa solo a come la pratica di downloadare musica abbia fatto a pezzi la sacralità del concetto di “album”.
Nel tuo narrare sei sempre partito dalla realtà, per poi creare una sorta di mondo parallelo, leggermente sfasato rispetto alla realtà stessa. Un po’ come se la durezza del presente potesse essere rappresentata attraverso un filtro quasi onirico. Indaghi frammenti della società forse elitari, li confronti con le difficoltà e il dolore quotidiani, sei attento alla provincia ma non te ne fai inghiottire, fai in modo che le dinamiche collettive facciano i conti con singoli a loro volta travolti da queste stesse dinamiche. Da tempo scrivi, Piersandro. Com’è la realtà oggi? Come va descritta?
Va descritta immergendovisi e tornando a galla con tutto quello che abbiamo visto, anche le cose più sordide, anche le più sgradevoli. Viene da chiedersi - data la logorrea mediatica, e la logorrea dei social network - cosa rimanga di non detto, anzi meglio di indicibile. Qualcosa c’è (la morte? La vecchiaia? Il razzismo di chi pensiamo abitualmente vittima di discriminazione? L’egoismo sfrenato? L’insopportabile dannosità delle religioni?). Ma forse il punto è semplicemente: raccontare questa realtà così apparentemente sovraesposta con ragionevolezza, sincerità, autenticità. Cioè fuori dai luoghi comuni. Riconoscendo e dicendo la verità, non importa se scandalosa (che nessuno più si scandalizza di niente), ma anche non importa se noiosa, non importa se scarsamente commovente, se antipatica. Per stare sull’ultimo paio di libri che ho scritto, mi importa molto meno raccontare che un immigrato nero in Italia faccia una vita dura, disprezzato dalla più parte degli italiani, e così muovere a commozione un certo numero di lettori, di quanto mi importi invece mettere in luce i meccanismi che portano questo immigrato a disprezzare il nostro paese e a comportarsi di conseguenza. Cioè cercando di fregare sistematicamente le istituzioni. Rendendomi però così odioso alla più parte dei lettori (e quanto ciò è seccante!).
Tu hai iniziato con la piccola editoria. Trovi ancora che nei piccoli e nei medi editori italiani ci sia spazio per la vivacità culturale? Per la voglia di scoprire nuove narrazioni, nuovi autori?
Sì, sì, assolutamente. Per motivi di lavoro (le recensioni che scrivo per TuttoLibri) mi capita ancora di leggere/vedere molta narrativa di esordienti (o di autori poco oltre l’esordio) pubblicata da piccoli editori, e continuo a vedere belle cose. I grandi editori sono comunque pochi, e non hanno una politica editoriale (e nemmeno un’estensione di uscite) che consenta di coprire tutti i buoni esordi. Che dunque vanno anche nella piccola editoria. “Nuove narrazioni” però mi sembra più uno slogan da marketing che non una categoria critica. Scrivere comporta, per la più parte, essere dentro il proprio tempo e testimoniarne (elaborarne) ogni risvolto, come si diceva più sopra. Il tempo cambia e il mondo è sempre nuovo. Dunque anche il narrare, automaticamente, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Ultima domanda. Che cosa consigli a chi ha il fatidico (o fatale) libro nel cassetto?
Di lasciarlo chiuso nel cassetto per sei mesi. Poi di riaprire il cassetto, rileggerlo. E se quel che si legge sembra entusiasmante, cominciare il giro dei piccoli, medi e grandi editori. Magari cercando di andare a portare il manoscritto di persona, cercando di conoscere prima le persone che se ne occuperanno in casa editrice, e poi chiedendo loro conto di quel che gli si è sottoposto. Oggi non è poi così difficile, c’è FaceBook, c’è Google, i nomi e luoghi si trovano. E se quel che si legge dopo sei mesi nel cassetto invece non ci sembra poi così entusiasmante? Ecco, allora consiglio di avere la modestia e l’onestà di spostarlo dal cassetto alla pattumiera. Noi siamo i nostri primi lettori. Dobbiamo essere più che convinti di quel che scriviamo. Nessuna indulgenza, con noi stessi. E pietà, invece, per stuoli di poveri redattori e lettori costretti a subire pagine e pagine di certe nostre povere menate.
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