giovedì 29 gennaio 2009

Voghera 07/02/2009

"Notte di nebbia in pianura" scende a Voghera.
Voghera. La città iriense.
Voghera. Alberto Arbasino.
Voghera. Valentino.
Voghera. L'Oltrepò.

SABATO 7 FEBBRAIO 2009
ALLE ORE 17
ALLA LIBRERIA "UBIK"
VIA EMILIA 89
Presentazione a cura di Giuseppe Polimeni (Università degli Studi di Pavia-Dipartimento di Scienza della Letteratura e dell'Arte Medievale e Moderna).

domenica 25 gennaio 2009

"Notte di nebbia in pianura" recensito da "Letture"


Quadri viventi con nebbia
Angelo Ricci è al suo esordio come narratore, lui che svolge la professione di avvocato, pur inventandosi un ruolo di operatore culturale col premio letterario "Tracce di territorio", nella provincia di Pavia. E proprio nelle lande della Lomellina, che nelle sere d'inverno possono essere veramente desolate, si svolge questo romanzo corale, con una struttura turn over in cui personaggi anonimi, privi di ogni apparente legame gli uni con gli altri, si muovono su sfondi simili e vicini, e vivono i loro drammi fino a un convergente, tragico, finale. Notte di nebbia in pianura (Manni, 2008, pagg. 118, euro 11,00) è il romanzo della vita quotidiana di personaggi del nostro tempo, che in una notte vicina a un Natale dei primi anni Duemila si dibattono nei loro dubbi, ricordi, traumi esistenziali, in una continua oscillazione fra presente e passato molto ben resa dall'autore. Che ha anche la capacità, rara in un esordiente, di costruire un linguaggio diverso e fortemente connotato per ciascun personaggio. Linguaggio che si trasforma in un turpiloquio violentissimo, avvitato su se stesso come i pensieri cupi e inquieti di cui vive, quando entra in scena il "cattivo" della situazione, un meschino delinquentello di provincia, che non ha vette di perversione, ma ben rappresenta il "male" nella sua dimensione quotidiana e anonima. Male che colpisce in forme inattese tutti i personaggi, anche quelli che sembrano aver sconfitto i loro svantaggi iniziali, come le due immigrate ucraine Alessia e Svetlana, belle e sensuali, nei cui occhi si riflettono, fra la nebbia che confonde i pensieri, le scene più intense del libro. O come il figlio unico ventenne che ha appena perso la madre vedova per un male incurabile, e suda anche col freddo perché pesa quasi cento chili, o gli amici ricchi che giocano a spennarsi a carte, e a chi ha l'amante più bella. Vite avvolte dalla nebbia, che sembra a sua volta l'emanazione sospesa di una collettiva domanda esistenziale.
(da "Letture", in uscita, febbraio 2009)

Bianca Garavelli, scrittrice e interprete di Dante, è critico letterario di “Avvenire” e Letture". Ha pubblicato alcuni romanzi, tra cui Beatrice (Moretti & Vitali, 2002), Il passo della dea (Passigli, 2005), Amore a Cape Town (Avagliano, 2006, Premio "Angeli nel cielo del Cilento" 2007). Ha curato il commento alla Commedia di Dante (Bompiani 2000-2001).

giovedì 15 gennaio 2009

Vigevano 24/01/2009

"Notte di nebbia in pianura" scende a Vigevano.
Vigevano. Gli Sforza.
Vigevano. Mastronardi.
Vigevano. La nebbia.
Vigevano. Città ducale.
Vigevano. Con i piedi in Lomellina e la testa a Milano.

SABATO 24 GENNAIO 2009
ALLE ORE 18
ALLA LIBRERIA "IL CONVIVIO"
C.SO GARIBALDI 23
Presentazione a cura della scrittrice e critico letterario Bianca Garavelli.

martedì 6 gennaio 2009

Una storia fatta di libri

Sono sempre stato convinto di una cosa. Chi scrive, o meglio, chi ha il privilegio di scrivere, non dovrebbe parlare troppo di ciò che fa. Perché, parlare di questo, significa parlare inevitabilmente di se stessi. E chi scrive, o meglio, come ho detto poco fa, chi ha il privilegio di scrivere, dovrebbe limitarsi quasi esclusivamente proprio a scrivere.
Chi scrive lascia, per forza di cose, alle parole il compito di raccontare una storia. Ed è proprio quella storia che parla già fin troppo abbondantemente di colui che l’ha scritta.
Scrivere non è una professione. Scrivere non è una missione. Scrivere non è nemmeno, e per fortuna, una vocazione.
Scrivere è solo e soltanto un mestiere. Un mestiere fatto di solitudine; un mestiere che è il risultato di un lento apprendistato (e non a caso, quando Thomas Pynchon decise di pubblicare i suoi racconti giovanili, li intitolò proprio così: ”Un lento apprendistato”). Scrivere è un mestiere artigianale.
Proprio come un falegname. Proprio come un ciabattino. Proprio come un sarto o un orafo.
Ma scrivere significa soprattutto raccontare una storia. E allora, in fin dei conti, chi scrive altri non è se non un cantastorie.
Ed è proprio per questo che ora voglio raccontarvi una storia.
Una storia che non centra nulla con il libro che ho scritto.
Ma pur sempre una storia.
Una storia che parla di chi l'ha scritta.
Una storia fatta di parole.
Una storia fatta di libri.

Questa storia ha una sua posizione precisa nel tempo.
Questa storia comincia nei primi anni Ottanta.
Questa storia nasce in un primo pomeriggio di fine maggio o di inizio giugno, quando il caldo piacevole delle ore centrali della giornata preannuncia già la pesantezza soffocante della calura estiva.
Questa storia ha una sua posizione precisa nei luoghi.
Questa storia comincia sul ponte che divide una città universitaria dalle campagne del riso e del mais.
A bordo di una vecchia Fiat un ragazzo di diciannove anni sta tornando a casa. Questo ragazzo ha già fatto una scelta fra due strade. Una l’avrebbe portato verso le lettere, l’altra l’avrebbe portato verso i codici. Ha scelto la seconda.
Sta tornando verso casa e sta ascoltando la radio. Una vecchia radio, forse ancora più vecchia della vecchia Fiat.
Per radio stanno leggendo un racconto. In questo racconto c’è una grande piazza. Una grande piazza in una città sconosciuta. In questa piazza c’è una grande folla. Una folla fatta di uomini e di donne. Una folla fatta di giovani e di vecchi, di bianchi e di neri.
Alcuni sono in abiti civili. Altri in uniforme. La folla sta festeggiando la fine di qualche cosa. Di qualche cosa di terribile. Forse la fine di una guerra. Una guerra fra bianchi e neri di uno stesso stato? Una guerra fra due stati diversi? Uno di bianchi e uno di neri? O forse tutti e due abitati da bianchi e da neri? Non si sa. Forse non è nemmeno importante.
La luce nella grande piazza è gialla e luminosa. Fa caldo. Siamo in Africa.
E le parole del racconto scendono lentamente giù verso il basso. Scendono sulle teste saltellanti della folla festosa. Fino ad arrivare ad un terzetto.
Una giovane ragazza bionda. Giovane, slanciata e bella. Bella di una sensualità ingenua e carnale. Come sensuale e carnale è la folla che con la sua gioia riafferma la vittoria della vita contro l’orrore della guerra.
La ragazza giovane e bella sta ballando assieme ad altri due giovani. I due giovani sono in uniforme. Uno è bianco. L’altro è nero. Sono tutti e tre vicini. Così vicini che la ragazza giovane e bella può sentire il crespo dei capelli del ragazzo nero e il profumo del sapone militare del ragazzo bianco.
E poi, come tante cose nella vita, il racconto si interrompe. Forse la radio è veramente troppo vecchia o forse è troppo vecchia la Fiat o forse il segnale se ne è andato e basta.

E anche il tempo se ne va e basta. E passano i giorni e i mesi e gli anni e il giovane di diciannove anni è diventato un po’ più vecchio e, come quel ponte fra due terre, anche lui è rimasto fra due terre. Quella delle lettere e quella dei codici.
Un giorno va a Torino, alla prima edizione della Fiera del libro. E qui compra un giornale. Il giornale è tutto giallo e fatto di molte pagine piene di recensioni: “L’indice dei libri del mese”.
E qui trova la recensione di un libro di racconti. Il libro si intitola “Qualcosa là fuori”. Il titolo gli piace. Sembra preannunciare qualche cosa di innocente eppure anche di terribile. Il libro è ambientato in Sudafrica. Un paese complesso e difficile e a lui piacciono le cose complesse e difficili.
E il tempo passa. E dopo qualche anno l’autrice del libro vince il Nobel e il ragazzo di diciannove anni (che quei diciannove anni ha già abbandonato da un bel po’) ha già cominciato da tempo a leggere tutti i suoi libri.
E comincia ad appassionarsi alla scrittura di quella delicata signora oggi ottuagenaria. E comincia ad appassionarsi ai suoi personaggi. Agli eroi della lotta contro l’apartheid, che però nella vita privata sono mariti traditori e pessimi padri. Alle ragazze bianche terribilmente consapevoli della loro bellezza seducente e che troppo tardi scoprono di non avere mai vissuto. Ai latifondisti afrikaner, al loro attaccamento impassibile all’essere protagonisti di un mondo destinato a finire.
Un libro gli piace più di tutti: “Un ospite d’onore”. La storia di una soave ma forte ragazza bianca che si innamora di un uomo molto più vecchio di lei, nell’immancabile scenografia sudafricana fatta di contrasti politici e privati che sono gli uni lo specchio degli altri. La scena più bella: il finale. La ragazza rimasta vedova, con la piccola figlia per mano. Vestite entrambe con abiti leggeri nel freddo di un aeroporto svizzero dove sono appena sbarcate o forse fuggite.

Gli anni sono passati. I diciannove anni sono lontani. Come lontani sono quel ponte e quella vecchia Fiat e quella vecchia radio.
I libri di quella delicata signora sudafricana sono quasi finiti. In una libreria della città universitaria i suoi due amici librai gli procurano gli ultimi due che gli mancano. Ormai introvabili. Comincia a leggere il primo. È la storia di un uomo, di un politico sudafricano conservatore, che ha finito tutte le illusioni della sua vita e che si appresta a vivere l’ultima.
Gli rimane ancora un libro. È un libro di racconti. Così come era un libro di racconti il primo che lesse. Quasi vent’anni prima.
Ma non trova il tempo per leggerlo subito.
Il Natale gli era sempre piaciuto. Fin da piccolo. E proprio poco prima di un Natale comincia a leggerlo. Inizia il primo racconto e poi il secondo e poi il terzo e poi tutti gli altri. Gli rimane l’ultimo. Ma ci sono altre cose da fare. Altre occupazioni.
Altri affanni.
Finalmente inizia l’ultimo racconto. Sono passati vent’anni da quel primo pomeriggio di fine maggio e di inizio giugno. Sono passati vent’anni da quel ponte, da quella vecchia Fiat e da quella vecchia radio.
Leva il segnalibro e apre la pagina. Inizia a leggere.
C’è una grande piazza. E c’è una grande folla festante che festeggia la fine di qualche cosa di orribile. E ci sono bianchi e ci sono neri. E la luce del sole è gialla e fa caldo. E siamo in Africa. E le parole del racconto scendono giù lentamente. E scendono giù verso un terzetto.
E c’è una ragazza giovane e bella. Giovane, bella e ingenuamente sensuale. E che balla abbracciata a due giovani in uniforme. Uno è bianco e l’altro nero. E la ragazza sente del primo il crespo dei capelli corti e del secondo il profumo del sapone militare.

Tanti anni fa mi imbattei quasi per caso in un libro che parlava di un uomo che aveva perso tutto: la famiglia, il lavoro, la sicurezza economica. E allora aveva preso un camper scassato e si era messo a viaggiare per le strade secondarie degli Stati Uniti. Le strade blu.
Un giorno del suo girovagare aveva incontrato un capo indiano che gli aveva detto: “Voi bianchi credete che il tempo e la vita vadano da un punto verso un altro, situato a molta distanza dal primo. Ma vi sbagliate. La vita e il tempo sono circolari e finiscono nello stesso posto da dove sono iniziati."

Ecco perché io mi porto tutto addosso. Tutte le sere. Anche quando non devo lavorare.
Perché e più comodo.