martedì 12 gennaio 2016

Senti le rane, di Paolo Colagrande (nottetempo)

Parole che perimetrano un luogo fantastico di accadimenti bislacchi ed eccentrici come eccentrico è il segno lasciato da un compasso estremo che racchiuda in sé la pianura, la risaia, un mare forse illegittimo e quel gracidio stolido di rane perenni che avvolgono come un umido manto una stagione che è tutte le stagioni: afa, gelo, neve, pioggia battente, brezza di mare e di terra che parte e arriva neanche lei sa bene dove, purché a delimitare paesi e paesoni dalla toponomastica di santi lisergici il cui patronimico va ben oltre l’elenco esaustivo di un calendario ormai strapieno di martiri dalle crocefissioni di fuoco e dalle mutilazioni catartiche. Un bar, forse avamposto di liquefazione di vite paesane, che ospita il dipanarsi di una storia mimetica nella parlata da gramelot padano di filosofi dalle menti peripatetiche avvezze a sdoganare il tutto e il niente che nasce e muore dal confine delimitato da marcite fangose e da aromi salmastri di mari clandestini che nascono dal coniugio fantastico di una terra (in)esistente in cui Fellini ha incontrato Borges mentre Ermanno Cavazzoni redigeva, triste solitario y final, il verbale di cotanto convegno. Preti svagati, svenevoli, vanesi e fatui, attori e convenuti al contempo di appuntamenti erotici con bellezze dal soffice tono muscolare avanguardista e sempre dimentiche delle loro mutande, filosofi da lor stessi per primi incompresi che vanno a mungere e vendemmiare stilemi di improbabili, ma al contempo lucidissime, chiarificazioni rinascimentali, bizantine, leonardesche e vitruviane. Perpetue manzoniane, ma anche guareschiane, dal grilletto facile che esternano ai carabinieri, che paion gendarmi pontifici alla ricerca del Pelloni Stefano detto il Passatore, un’eterna confessione di avvenute terminazioni per l'asepsi immortale dell’anima e del buon nome di Santa Romana Chiesa. C’era nei Settanta un bolognese dal nome di Pupi Avati che aveva girato, in quella stessa padania dalla estrema favola che è la stessa forse del Paolo Colagrande, ivi sempiterno autore, un film dal titolo La casa dalle finestre che ridono dove alla fine (quella fine che un cinematografico poster dell’epoca diceva “non riuscirete a sapere nemmeno con una soffiata”) il prete dalla presunta bonaria ciccia si spogliava della ecclesiastica vesta per giungere all’ostensione di una vecchia femmina dalle sadiche voglie omicide e torturatrici. Ecco, Senti le rane non è che sia poi un librettuccio leggero di favella svelta, no, Senti le rane è un padano e potente Necrocromicon, un buco nero orrorifico in cui tutte le parole vengono risucchiate perché prima si risucchian le parole e poi si fa lo stesso con gli umani che hanno avuto la baldanza proterva, o la mestizia disattenta, di proferirle. Amen.
Un libro.
Senti le rane, di Paolo Colagrande (nottetempo).

lunedì 11 gennaio 2016

Le figlie degli altri, di Richard Stern (Calabuig)

Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta va in crisi il mito della invincibilità degli Usa, impanatati militarmente nel Vietnam e altrettanto impantanati moralmente nello scandalo Watergate, percorsi da Summer of Love hippie e stragi della Manson Family, trafitti dall’allucinazione lisergica del profeta Timothy Leary e scossi da una rivoluzione sessuale a metà strada tra rinascita dei corpi e creazione di nuovi consumi da parte di corporation mediatiche che avevano fiutato l’affare del sesso libero. Ed è il crollo del mito di questa invincibilità che fa da sfondo alla educazione sentimentale del professor Merriwether e della sua giovane ed erotica allieva Cynthia. Ma non c’è nessun Angelo Azzurro, non c’è nessun professor Unrat all’orizzonte di questa vicenda, perché Richard Stern compone un grande romanzo sulla condivisione dei sentimenti, sulla difficoltà dell’essere genitori ed educatori, sulla difficoltà dell'essere figli, un romanzo che ricorda la grande stagione del romanzo ottocentesco, un grande romanzo sull’America. Non c’è nulla di letterariamente morboso in Le figlie degli altri al contrario della morbosità squisita, cercata e letteraria che troviamo in Lolita di Nabokov. Le figlie degli altri è l’affresco di una società pervasa da una secolare mutazione politica, sociale, quasi genetica, una mutazione che provoca crisi, febbri, travagli dai quali si intravede comunque uno spiraglio di cambiamento forse positivo. Atmosfere da New England, rivalità accademiche e ripicche da Heavy League, una famiglia descritta genialmente nel divenire di tutti i suoi componenti, una storia d’amore che nasce da una crisi coniugale in atto da tempo e il ritratto del protagonista maschile mai scontato, mai descritto banalmente ma sempre come artefice di un destino complesso e che, pur guardando al domani, mai potrà e vorrà dimenticare il passato. Scritto con potente levità narrativa, con piccoli intarsi che riconducono raffinatamente anche al romanzo postmoderno, in Le figlie degli altri troviamo tutta l’atmosfera letteraria dei Roth, degli Updike, ma corretta dalla dolcissima sensibilità umana dell’Autore, che mai condanna, mai assolve, ma sa presentare l’intreccio umano e insondabile che unisce le vite che si mettono geneticamente in gioco in quel grande e oscuro e tragico e magnifico luogo che è la famiglia. Come ne Le affinità elettive di Goethe, anche il professor Merriwether cercherà di interpretare il mondo con l’aiuto della sua formazione scientifica, nella consapevolezza tristemente gioiosa che i sentimenti a volte ci salvano, a volte ci feriscono, ma che comunque l’importante è viverli.
Un libro.
Le figlie degli altri, di Richard Stern (Calabuig).

martedì 29 dicembre 2015

Notte di nebbia in pianura. La recensione di Roberta Marcaccio


Notte di nebbia in pianura è stato il primo romanzo che ho pubblicato e per questo mi legano a questo libro un affetto particolare e anche i ricordi del mio esordio come autore. Questo blog prende proprio da lì il suo nome. Roberta Marcaccio ne scrive una magnifica recensione. Notte di nebbia in pianura è disponibile in versione cartacea per i tipi di Manni Editori e in versione ebook per i tipi di Antonio Tombolini Editore in cui, nella collana Officina Marziani, va a comporre, con Sette sono i re e L'odore del riso, la mia "Trilogia della pianura"
L'originale della recensione è qui. Buona lettura e Buon Anno!


La nebbia. La nebbia in questa terra. La nebbia che d’inverno ricopre i campi che d’estate diventeranno un mare a quadretti.Non serve a niente.Non ti ci puoi nascondere.Mai.
Dopo anni di corsi e lettura di manuali di scrittura, ho capito una cosa!
In scrittura non esistono regole. Non esiste uno stile. Non esiste un prontuario del giovane scrittore.
Quello che esiste è lo stile che ognuno ricerca e le regole che ogni autore fa proprie.
Sono rimasta colpita da libri che erano al di fuori da ogni canone letterario e dalla particolarità stilistica scelta dallo scrittore.
Come in Notti di nebbia in pianura, romanzo di Angelo Ricci, che ancora una volta mi ha catturata in una lettura noir per me insolita.
È una storia forte, dura. Una vicenda di vite spezzate, avvolte dalla nebbia.
Nebbia che ricopre, congela, stravolge, confonde.
Nebbia in cui si perde tutto: l’arroganza dello Sticazzi, il colore degli occhi di Svetlana, il cemento della tomba che ormai sarà tutto spaccato, la felpa di Ibrahim così calda, l’avvocato che vende opere d’arte a trecentonovantanove euro…
Le storie dei vari personaggi si snodano nella notte della Vigilia di Natale; sono vite apparentemente divise, le une dalle altre, ma allo stesso tempo accomunate dallo stesso clima e strappate alla stessa amarezza.
Lo stile di Angelo Ricci è ancora una volta unico, mi piace definirlo “uno stile al di sopra dello stile”: una scrittura in cui non esistono regole e la narrazione, anziché essere banalizzata, viene esaltata.
Vite come polvere.
Vedo la polvere che danza nel cono di luce che producono i riflettori. La polvere che adesso si stenderà piano piano su queste croste da poco prezzo e su queste povere suppellettili placate argento mille.Vedo la polvere che si agita attorno a noi.Che ci domina.Che ci governa.Che respiriamo.Tutti i giorni.Sempre.

martedì 15 dicembre 2015

Vermeer tra ombre e "colmo dei lumi". La fanciulla, la donna e il raggio fecondo, di Augusto Iossa Fasano (Aracne)

“Ci sono più cose in cielo e in terra… “ scriveva Shakespeare e in questo agile e utilissimo saggio veniamo a scoprire universi plasmati e celati dall’uso sapiente di luci e ombre, dalla significante allocazione di oggetti, di barriere, di figure che albergano mistericamente nella pittura forse enigmatica di Vermeer che, percorrendo la strada cifrata della simbolica cosmogonia che vive sotto la superficie dei dipinti dell’iconografia occidentale, semina flussi di ataviche e reiterate rimembranze di vita e di morte, di pace e di violenza, flussi pittorici che sottendono al flusso spermatico di inseminazioni che è punto Omega dell’incontro simbiotico degli esseri. Un costante feedback di informazione non genetica vive e palpita tra gli scenari (verrebbe da dire paesaggi umani) che nascono dal perimetro finito di questi dipinti, perimetro finito che tuttavia si schiude al perimetro infinito della informazione genetica. Così scrive l’Autore: “Tredici le opere attribuite a Vermeer con donna e finestra visibile, in altre quattordici la cornice della fonte luminosa non compare direttamente, ma se ne intuisce la prossimità. In totale per ventisette volte una donna si espone, pur ben coperta, alla luce che penetra da qualche apertura delle mura di casa”. Così scrive Bianca Tosatti nella prefazione: “I numeri parlano di gravidanze e inseminazioni, come nella geometria sacra in cui Tredici simboleggia l’eterna distruzione e creazione della vita. Ma Ventisette è un numero potente, prodotto da un quadrato per un cubo, e ventisette sono le opere in cui Vermeer espone una donna alla luce di una finestra (quadrato) che illumina una stanza (cubo)”.
Scopriamo così l’esegesi di una perenne annunciazione che ingravida la donna come eterno archetipo che trasmette la vita, una annunciazione che inizia addirittura nell’altrove degli umani, un altrove forse dominato da un demiurgo frutto di una gnosi apparentemente indifferente e tuttavia pregna della ricerca del significato ultimo delle parole e delle cose. La figurazione maschile, soldato o maestro o sapiente demone portatore di fascinose seduzioni, si pone più come ostacolo che come essenza di intermediazione carnale, ostacolo (con)fuso nella barriera di altri ostacoli (im)mobili, tendaggi o sedie o tavoli o credenze, ostacolo forse foriero di occulta e lacerante violenza, nella simbolica riaffermazione di uno spostamento virtuoso di confini raggelati dalla quotidiana, e per questo ancor più agghiacciante, concretezza del presente ma tendenti tuttavia all’incontro ineludibilmente necessario con l’infinita fonte di spazio tempo declinato dalla eternità di quelle particelle elementari, i fotoni, al contempo viventi sia come essenza sia come percorso compiuto dal messaggio genetico della luce.
Un libro.
Vermeer tra ombre e “colmo dei lumi”. La fanciulla, la donna e il raggio fecondo, di Augusto Iossa Fasano (Aracne).

martedì 1 dicembre 2015

Sette sono i re. La recensione di Roberta Marcaccio


Roberta Marcaccio scrive una bellissima e intensa recensione del mio libro Sette sono i re. E' un libro che mi è molto caro perché è stato il primo ad aprire la collana Officina Marziani diretta da Michele Marziani, una della collane di Antonio Tombolini Editore, collana che conta ormai ventun titoli. L'originale della recensione è qui. Buona lettura!


Immagini. Come pennellate su una tela.
Pennellate nere su uno sfondo grigio. Il grigio del fumo, delle strade, delle macchine, delle fabbriche, della città.
Sette sono i re è lo spaccato di una società marcia, il retroscena della nostra bella vita, quello che c’è dietro e non vediamo.
Le parole, sapientemente utilizzare dall’autore, trascinano il lettore in un mondo in cui gli odori, i colori, le case, la terra, le persone puzzano di merda e di morte. Una morte seminata a suon di proiettili. Dove il protagonista alterna i ricordi di un suo passato da guerrafondaio ad un presente in cui la guerra la fa perché c’è qualcuno che lo paga per uccidere.
Molto interessante l’alternanza fra passato e presente (fra i ricordi del protagonista e la vita attuale), caratterizzata da un passaggio armonico delle forme verbali. La lettura non inciampa mai, scivola fra presente e imperfetto con lucida facilità.
Sette sono i re è un romanzo nero, racconta di uno strato sociale depravato in cui i soldi girano a mazzette, i crimini si comprano come prodotti di un supermercato e gli uomini obbediscono agli ordini di altri uomini, per denaro.
Il protagonista è un uomo che ha visto il dolore, il sangue, ha vissuto la guerra, ma sembra non riuscire a separarsi dall’idea di morte che ormai fa parte della sua vita. Nel borsone che porta con sé ha armi micidiali, che non risparmiano e non perdonano. Armi che uccidono a distanze impensabili. Che folgorano un uomo a bruciapelo senza dargli neanche il tempo dell’ultimo respiro.
Io tengo il metallo del San Luigi sotto al giubbotto. Sento il suo freddo contro la pelle. Il freddo del metallo. Il freddo che, per miracolo, diventa incandescente quando incomincia a sparare. Per miracolo. Il miracolo di un santo.
Storia che ti trascina dentro la storia, raccontata con uno stile particolare. Frasi brevi. Cortissime. Di una parola o due. Parole scelte, una per una. Con un lavoro sapiente di cesellatura.
Parole semplici e frasi che si ripetono danno alla lettura un ritmo incessante, inesorabile, come una scarica di mitra.

mercoledì 25 novembre 2015

Scrivere per i blog, di Lino Garbellini (Le Monnier)

Blog, contrazione del termine weblog che, come un reperto ritrovato ai confini dei mondi conosciuti, ci rimanda indietro a quel digitale e quantistico Tempo di Planck da cui si originò l’ultimo dei media elettrici, il web. Stazione di posta, fortezza Bastiani, rifugio, diario, magazine, mono o pluriautoriale il blog è parte integrante del magma, del caos, del mare infinito di internet. Negli anni quella contrazione terminologica si è declinata come gossip, fashion, food, lit e, sempre negli anni, più volte si è celebrata la sua morte (come altre morti illustri si celebrano ogni tanto, quella del romanzo, dei libri, dei giornali). Ma come un’araba fenice il blog è sempre risorto dalle sue ceneri. Il blog non è stato metabolizzato dai social network, non è stato azzerato e annullato, ma, come ogni medium ha fatto nell’inevitabile confronto con l’apparizione di altri media, si integrato con il web 2.0. Oggi il blog ha la vitale necessità di essere collegato a facebook, a twitter, a pinterest, a tumblr, ma è questo un collegamento virtuoso, un abbraccio non mortale bensì ancora una volta vivificante per questo medium nel medium che è il blog. Lino Garbellini nel suo Scrivere per i blog ha il merito di presentarci quello che è lo stato dell’arte del blog, fotografato e sviscerato in questo particolare attimo, attimo fermato nell’incessante divenire spaziotemporale del web. Un’agile guida, un piccolo manuale esaustivo di grande interesse. Forse tra un istante, nell’universo del web, tutto sarà diverso, tutto sarà resettato e trasformato e traslato in modi a noi ancora sconosciuti, ma in questo attimo leggete questo libro.
Un libro.
Scrivere per i blog, di Lino Garbellini (Le Monnier).

sabato 21 novembre 2015

Il quarto numero de Il Colophon


Da pochi giorni è online il quarto numero de Il Colophon, rivista di letteratura del coraggioso e innovatore Antonio Tombolini Editore. Questo numero è l'ultimo del 2015. Si intitola Sto parlando con te ed è dedicato al complesso rapporto tra scritture e letture, tra lettore e letture. In questo numero scrivo di Pier Paolo Pasolini nel quarantennale della sua scomparsa, intervisto il geniale e visionario Gabriele Frasca, recensisco due libri Con Borges e L'invenzione del romanzo. Inoltre c'è anche un mio racconto tratto dal mio libro Padania blues. Il tutto con la fantastica guida di Michele Marziani e l'iconografica professionalità di Marta D'Asaro. Buona lettura!

lunedì 16 novembre 2015

Intervista su informAle

Serve passione per parlare di libri. Serve passione, ma servono anche amore, forza e dedizione. Qualità che da sempre trovo nella libreria Le mille e una pagina, luogo che, per scelte editoriali e proposte letterarie, riesce a stupire piacevolmente anche un lettore "forte" come me. Laura Fedigatti, che con Lia Maffi è una delle due bravissime e professionalissime titolari della libreria, mi intervista per la rivista informAle. Abbiamo parlato di libri, di autori, di scrittura, di territorio (quel lembo di Piemonte lombardo, la Lomellina, che fa da sfondo a molto di ciò che scrivo). Buona lettura!



lunedì 9 novembre 2015

Il proiezionista, di Abe Kazushige (Calabuig)

Non soltanto la voce di Murakami Haruki giunge dalle arcaico-tecnologiche lande nipponiche. Non soltanto le mutazioni di Akira o l'erotismo di Æon Flux. L’editore Calabuig, nel suo viaggio tra i generi e gli autori della letteratura mondiale, fa pervenire ai lettori la gradita scoperta di questo Il proiezionista di Abe Kazushige. Una Tokio violenta, di una violenza efferata ma al contempo accettata, seme genetico di una società estrema che ancora fa i conti con i fantasmi di un militarismo nazionalista alla Yukio Mishima, erede della sottile e spietata società feudale di mikado divinizzati e samurai spietati, seme oggi intrinsecamente contenuto nella postmoderna dedizione al massacro di sette millenariste come la Aum Shinrikyo. Yakuza dalle teste rasate e boss che coniugano omicidio e affari, ragazzine dedite alla mercificazione di sé tra pornografia e love hotels, sale cinematografiche nella cui oscurità cercano di rendersi irreperibili ex estremisti di destra, bande di liceali minorenni intenti allo stupro collettivo e alla sopraffazione. Ecco la Tokio di Abe Kazushige, scenografia mirabilmente tarantiniana, con vie e centri commerciali a metà strada tra la infinita periferia losangelina e le minuscole case di legno di un Sol Levante che, dal bagliore mortale delle atomiche dell’agosto ’45, è da allora costretto a fare i conti con la fusione di ataviche ossessioni e devices ultramoderni. Siamo lontanissimi dalla patinata e lussureggiante parola di Murakami Haruki, così come siamo lontanissimi dalla simbolicità freudiana di manga e anime, e lo siamo a ragion veduta perché Il proiezionista è qualcosa di assolutamente nuovo nel panorama nipponico che osserviamo da lontano. Abe Kazushige ha la capacità di creare una nuova narrazione in cui banalità e orrore, stupefazione e accettazione si uniscono andando ben oltre ciò che siamo abituati a pensare del Giappone. Tra le asettiche vie di questa metropoli al contempo bladerunneriana e primaverile si appalesa tutto il sentire di un mondo che erroneamente ci illudevamo di conoscere. Leggendo Il proiezionista da oggi sappiamo che non è così.
Un libro.
Il proiezionista, di Abe Kazuschige (Calabuig).

venerdì 6 novembre 2015

Fuori di sé. Da Freud all'analisi del cyborg, di Augusto Iossa Fasano (Edizioni ETS)

Esiste un diaframma, un confine, un’interfaccia che è anche e soprattutto luogo di contaminazioni e di feedback, un’interzona che fonde e trasla quello che Gabriele Frasca definirebbe scambio di informazioni genetiche e non genetiche e che si pone tra l’inconscio di quella unità carbonio che è la macchina umana e l’universo esterno che questa macchina influenza e da cui è al contempo influenzata. Augusto Iossa Fasano esplora questo territorio di contaminazioni multiunivoche, questo cosmo in cui l’essere umano si muove e contempla le mutazioni che intersecano e trafiggono il corpo, la mente, le percezioni. Dalle definizioni di una mappatura necessariamente psicoanalitica e medica l’Autore prende le mosse per spingersi oltre i phildickiani Bastioni di Orione, seguendo la rotta segnata dai casi clinici con i quali da analista si è confrontato e si confronta, compiendo un viaggio attraverso la linea d’ombra che permea questi casi, giungendo a quel cuore di tenebra in cui l’oscurità è rischiarata dai bagliori di quelle astronavi in fiamme ricordate dall’androide di Do androids dreams of electric sheep mentre cerca di stipulare un armistizio con la sovrumana (auto)coscienza della infinita reiterazione della finitezza. E sono proprio quei bagliori che proiettano sullo specchio borgesiano, che si frappone tra il sé e l’universo, le ombre la cui osservazione e interpretazione conduce faticosamente la macchina umana a comprendere quale sia l’attimo in cui potrà, per una volta ancora, definirsi (in)finita nel benefico superamento della stupefazione prodotta dal confronto spietato tra la sua elastica fisicità e la rigidità forse mortale dei device e delle protesi, siano esse terapeutiche o anche e soprattutto esaltatrici di un potere che ci sorprende nel momento in cui quegli stessi device sembrano prendere il dominio sui loro stessi portatori. Ecco allora l’ostensione del rifiuto (il lancio) della protesi, messaggio estremo di una psicosi che cerca la verità, verità che sarà tale solo quando il cyborg affronterà il pensiero altrettanto estremo della provenienza e della genesi dei suoi ricordi, della sua memoria, del suo percepirsi immerso nella densità sorprendente di un universo della coscienza che si espande così come si espande l’universo quantistico delle particelle elementari. Ma è questa un’espansione le cui coordinate spaziotemporali sono determinate dallo stesso viaggiatore che è al contempo soggetto e oggetto, esploratore ed esplorazione, osservatore e osservato. Perché infiniti sono gli attimi della finitezza. 
Un libro.
Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg, di Augusto Iossa Fasano (Edizioni ETS).