martedì 26 gennaio 2016

L'invisibile ovunque, di Wu Ming (Einaudi)

I fotoni emessi dagli avvenimenti storici giungono a colpire l’osservatore percorrendo uno spaziotempo che aumenta in proporzione all’aumento del distacco spaziotemporale che divide avvenimento e osservatore. Immerso nel divenire quantistico della storia, Giorgio Galli da tempo afferma che gli accadimenti che gli umani ad essi spaziotemporalmente più vicini definiscono come Prima e Seconda Guerra Mondiale appaiono ora, in questo istante quantistico posto a maggiore distanza da quegli stessi osservatori, in realtà come un unico accadimento che, stante le future e probabilistiche osservazioni che saranno naturalmente ancora soggette a mutazione spaziotemporale, è da definirsi come Seconda Guerra dei Trent’anni. 
La destrutturazione degli strumenti portatori di terminazione bellica, la disarticolazione delle fortificazioni, il frastagliamento apparentemente mobile dell’immobilità delle trincee, la trafittura dei cieli da parte della guerra aerea e dei mari da parte della guerra sottomarina, il venire meno dei colori sgargianti distintivi delle divise degli eserciti contrapposti e la loro mescolanza in un unicum di camuffamento che si allarga a macchia d’olio uniformando quei colori, per mezzo delle nuove tecniche di mimetismo, a un terreno devastato e vulnerato, in cui la vulnerazione è la stessa dei corpi mimetizzati nell’uniformità delle divise, i telefoni sempre funzionanti (come non dimenticare quella poetica mortale, quasi da androide phildickiano, di quella comunicazione ininterrotta tra telefoni militari che apre il monumentale Europe Central di William T. Volmann) portano Stephen Kern a definire gli accadimenti del 1914/1918 come “guerra cubista”, estrema contaminazione di ideologie, di pensieri e posizioni intellettuali ed artistiche che danno vita a un golem in cui il soffio dell’arte si sposa al soffio dell’angelo della morte. 
Esploratori da sempre di anfratti nascosti e obliqui del divenire spaziotemporale della storia, i Wu Ming penetrano in questo buco nero bellico e loro stessi assumono quelle tecniche di mimetizzazione per addentrarsi in un’esplorazione dei corpi e delle anime che in esso si squarciano. Quattro sono i capitoli de L’invisibile ovunque. Il primo è dimostrazione prodromica di tutto ciò che Hannah Arendt avrebbe definito, in quella porzione terminale della Seconda Guerra dei Trent’anni, come “banalità del male”, banalità che alberga nelle menti di ogni umano che ottimizza nella violenza bellica il proprio male nascosto, dall’ardito che sapientemente flette i muscoli in un’uniforme consona alla deflagrazione del corpo del nemico, al contadino bavarese che diventa aguzzino delle SS, al ragioniere serbo che si mette agli ordini del criminale di guerra Arkan “la tigre”. Il secondo è dimostrazione agghiacciante di quella vulnerazione che trafigge anime, corpi e menti che nel camuffamento dei propri pensieri, immaginato come artificio estremo di salvezza, trovano in realtà l’eterno abisso che non vede l’ora di specchiarsi negli occhi di chi ha commesso il tragico errore di osservarlo, in una mutua e reciprocamente quantistica danza di morte in cui l’osservatore è preda dell’osservato. Il terzo è ostensione di quella contaminazione del sentire novecentesca, al contempo vittima e carnefice, dell’arte, della pittura, della musica, della poesia che ha soffiato sul fuoco della creazione accorgendosi troppo tardi che sotto quel fuoco covavano, mimetizzandosi, le ceneri di mostri che avrebbero condotto gli umani alla morte auto inflitta nel tentativo di sfuggire alla terminazione imposta da quegli stessi mostri. Il quarto è debito genialmente narrativo nei confronti del Roberto Bolaňo de La letteratura nazista in America, ma anche del J. Rodolfo Wilcock de La sinagoga degli iconoclasti e del Danilo Kiš dell’Enciclopedia dei morti e anche della magnifica ossessione filmica, che oggi definiremmo, limitandola comunque, steampunk, del visionario Karel Zeman.
Forse, in un tempo che deve ancora giungere perché è già giunto, in un quadrante parallelo di un universo parallelo in questo preciso istante si sta combattendo The Great Martian War 1913-1917, versante mimetico di una eterna guerra millenaria che unisce nel dolore tutti gli universi.
Un libro.
L’invisibile ovunque, di Wu Ming (Einaudi).

lunedì 25 gennaio 2016

L'odore umano, di Ernő Szép (Calabuig)

Ungheria 1944. L’ex Transleitania dell’impero austro-ungarico ha condiviso alla fine della Prima Guerra Mondiale il crollo dell'Austria Felix (reso mirabilmente, dalla parte austriaca, dalla magnifica e inconsolabile poetica che traspare dalle opere di Joseph Roth), vivendo poi la parentesi belakunista dell’estremo confronto sociale che riverbera, prodromo degli avvenimenti che condurranno alla dittatura nazista, negli anni delle riparazioni di guerra imposti dal Trattato di Versailles anche nella evanescente e postguglielmina Repubblica di Weimar. Stabilità cerca l’Ungheria dandosi alla “monarchia senza re” dell’ex contrammiraglio asburgico Horthy, eletto dal parlamento come “reggente” e da allora definito “ammiraglio senza flotta”. Tiepidamente disposto a seguire la politica antisemita del Terzo Reich una volta divenuto alleato dell’Asse, Horthy verrà deposto dai tedeschi dopo un fallito tentativo di armistizio separato con l’Unione Sovietica e al suo posto i nazisti pongono al vertice dello stato magiaro il movimento filonazista e violentemente antisionista delle Croci Frecciate, guidato da Ferenc Szálasi, mentre le truppe dell’Armata Rossa superano i confini in direzione di Budapest in un’atmosfera ormai di fine imminente e di caduta degli dei (attimo storico reso con toni tragicamente onirici, e disvelando anche insospettabili retroscena politici, da Jonathan Littell nel suo romanzo Le benevole). Ed è questo attimo storico, attimo che nella sua sofferenza vale tutto il tempo dell’universo, che Ernő Szép localizza come momento narrativo di questo intenso L’odore umano. Come un diarista del Settecento l’Autore descrive le piccole sofferenze quotidiane, i mali del corpo (che divengono ben presto ferite irrimarginabili dell’anima), gli affanni di chi, vecchio, è costretto ai lavori forzati, gli afrori e gli sconforti della promiscuità imposta, la disperazione e le vane attese, le minuscole solidarietà e le incomprensibili violenze verbali e fisiche frutto dell’ideologismo più bestiale. Ernő Szep si barrica dietro questa relazione scritta del tragico divenire quotidiano il cui minimalismo descrittivo non è fuga, bensì tentativo umano di comprensione di un disumano (e antiumano) incomprensibile demiurgo di morte, quello stesso demiurgo di morte la cui orrida apparizione costringerà Primo Levi a scrivere: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. L’odore umano è romanzo di un grande autore, diario di una vittima che comunque resiste al di là di tutto, medicina prescritta da un medico dei sentimenti come linimento per le piaghe di quei mali che uomini satanicamente accecati impongono ad altri uomini. “Fui Ernő Szép”, così l’Autore presentava se stesso negli ultimi anni della sua vita e noi, nell’accoglimento di questo suo basso profilo dai toni quasi alla Borges, gli rendiamo l’onore che si rende agli eroi della parola scritta.
Un libro.
L’odore umano, di Ernő Szép (Calabuig).

martedì 12 gennaio 2016

Senti le rane, di Paolo Colagrande (nottetempo)

Parole che perimetrano un luogo fantastico di accadimenti bislacchi ed eccentrici come eccentrico è il segno lasciato da un compasso estremo che racchiuda in sé la pianura, la risaia, un mare forse illegittimo e quel gracidio stolido di rane perenni che avvolgono come un umido manto una stagione che è tutte le stagioni: afa, gelo, neve, pioggia battente, brezza di mare e di terra che parte e arriva neanche lei sa bene dove, purché a delimitare paesi e paesoni dalla toponomastica di santi lisergici il cui patronimico va ben oltre l’elenco esaustivo di un calendario ormai strapieno di martiri dalle crocefissioni di fuoco e dalle mutilazioni catartiche. Un bar, forse avamposto di liquefazione di vite paesane, che ospita il dipanarsi di una storia mimetica nella parlata da gramelot padano di filosofi dalle menti peripatetiche avvezze a sdoganare il tutto e il niente che nasce e muore dal confine delimitato da marcite fangose e da aromi salmastri di mari clandestini che nascono dal coniugio fantastico di una terra (in)esistente in cui Fellini ha incontrato Borges mentre Ermanno Cavazzoni redigeva, triste solitario y final, il verbale di cotanto convegno. Preti svagati, svenevoli, vanesi e fatui, attori e convenuti al contempo di appuntamenti erotici con bellezze dal soffice tono muscolare avanguardista e sempre dimentiche delle loro mutande, filosofi da lor stessi per primi incompresi che vanno a mungere e vendemmiare stilemi di improbabili, ma al contempo lucidissime, chiarificazioni rinascimentali, bizantine, leonardesche e vitruviane. Perpetue manzoniane, ma anche guareschiane, dal grilletto facile che esternano ai carabinieri, che paion gendarmi pontifici alla ricerca del Pelloni Stefano detto il Passatore, un’eterna confessione di avvenute terminazioni per l'asepsi immortale dell’anima e del buon nome di Santa Romana Chiesa. C’era nei Settanta un bolognese dal nome di Pupi Avati che aveva girato, in quella stessa padania dalla estrema favola che è la stessa forse del Paolo Colagrande, ivi sempiterno autore, un film dal titolo La casa dalle finestre che ridono dove alla fine (quella fine che un cinematografico poster dell’epoca diceva “non riuscirete a sapere nemmeno con una soffiata”) il prete dalla presunta bonaria ciccia si spogliava della ecclesiastica vesta per giungere all’ostensione di una vecchia femmina dalle sadiche voglie omicide e torturatrici. Ecco, Senti le rane non è che sia poi un librettuccio leggero di favella svelta, no, Senti le rane è un padano e potente Necrocromicon, un buco nero orrorifico in cui tutte le parole vengono risucchiate perché prima si risucchian le parole e poi si fa lo stesso con gli umani che hanno avuto la baldanza proterva, o la mestizia disattenta, di proferirle. Amen.
Un libro.
Senti le rane, di Paolo Colagrande (nottetempo).

lunedì 11 gennaio 2016

Le figlie degli altri, di Richard Stern (Calabuig)

Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta va in crisi il mito della invincibilità degli Usa, impanatati militarmente nel Vietnam e altrettanto impantanati moralmente nello scandalo Watergate, percorsi da Summer of Love hippie e stragi della Manson Family, trafitti dall’allucinazione lisergica del profeta Timothy Leary e scossi da una rivoluzione sessuale a metà strada tra rinascita dei corpi e creazione di nuovi consumi da parte di corporation mediatiche che avevano fiutato l’affare del sesso libero. Ed è il crollo del mito di questa invincibilità che fa da sfondo alla educazione sentimentale del professor Merriwether e della sua giovane ed erotica allieva Cynthia. Ma non c’è nessun Angelo Azzurro, non c’è nessun professor Unrat all’orizzonte di questa vicenda, perché Richard Stern compone un grande romanzo sulla condivisione dei sentimenti, sulla difficoltà dell’essere genitori ed educatori, sulla difficoltà dell'essere figli, un romanzo che ricorda la grande stagione del romanzo ottocentesco, un grande romanzo sull’America. Non c’è nulla di letterariamente morboso in Le figlie degli altri al contrario della morbosità squisita, cercata e letteraria che troviamo in Lolita di Nabokov. Le figlie degli altri è l’affresco di una società pervasa da una secolare mutazione politica, sociale, quasi genetica, una mutazione che provoca crisi, febbri, travagli dai quali si intravede comunque uno spiraglio di cambiamento forse positivo. Atmosfere da New England, rivalità accademiche e ripicche da Heavy League, una famiglia descritta genialmente nel divenire di tutti i suoi componenti, una storia d’amore che nasce da una crisi coniugale in atto da tempo e il ritratto del protagonista maschile mai scontato, mai descritto banalmente ma sempre come artefice di un destino complesso e che, pur guardando al domani, mai potrà e vorrà dimenticare il passato. Scritto con potente levità narrativa, con piccoli intarsi che riconducono raffinatamente anche al romanzo postmoderno, in Le figlie degli altri troviamo tutta l’atmosfera letteraria dei Roth, degli Updike, ma corretta dalla dolcissima sensibilità umana dell’Autore, che mai condanna, mai assolve, ma sa presentare l’intreccio umano e insondabile che unisce le vite che si mettono geneticamente in gioco in quel grande e oscuro e tragico e magnifico luogo che è la famiglia. Come ne Le affinità elettive di Goethe, anche il professor Merriwether cercherà di interpretare il mondo con l’aiuto della sua formazione scientifica, nella consapevolezza tristemente gioiosa che i sentimenti a volte ci salvano, a volte ci feriscono, ma che comunque l’importante è viverli.
Un libro.
Le figlie degli altri, di Richard Stern (Calabuig).