lunedì 22 giugno 2015

Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, di Ngugi Wa Thiong'o (Jaca Book)

Ci sono domande che sono determinanti nell’universo della scrittura. Quale tipo di linguaggio è necessario utilizzare? Che rapporto esiste tra la condizione dei personaggi e lo stile con cui si esprimono? E come far convivere l’espressione linguistica delle varie epoche storiche con la contemporaneità dei lettori? Domande che sono alla base di quella struttura che dal Settecento si è formata con il nome di romanzo e che lo stesso Alessandro Manzoni si è posto per tutti i decenni di travaglio di quei Promessi sposi che sarebbero stati il primo romanzo in lingua italiana. Domande che si ripresentano con urgenza estrema soprattutto in quei luoghi che sono stati vittime della colonizzazione europea e che hanno avuto la necessità di sviluppare un linguaggio unificante non solo delle narrazioni ma, attraverso di esse, anche di un popolo. La lingua, la scrittura sono elementi determinanti dell’identità di un paese, di una collettività che, con esse, ribadisce la propria vitalità e la propria affermazione come entità vivente. È proprio questo è l’elemento dominante che sta alla base di questo Decolonizzare la mente. Ngugi Wa Thiong’o, scrittore e intellettuale africano che è stato incarcerato per l’attività da lui condotta per l’affrancamento linguistico della sua gente, descrive in questo saggio tutta l’odissea rivoluzionaria, culturale, narrativa ed editoriale che ha coinvolto un intero popolo per giungere al perfezionamento di una liberazione che non è mai completa del tutto finché non perviene anche alla emancipazione dalla lingua e dalla scrittura dei colonizzatori. Decolonizzare la mente è libro utilissimo per chi voglia conoscere gli aspetti meno appariscenti, e tuttavia non meno importanti, del processo della decolonizzazione africana, processo che, nonostante l’indipendenza ottenuta negli Anni Sessanta, è per molti aspetti economici, politici, sociali e culturali in attesa di un completamento ancora estremamente difficile. Il confronto tra tradizione orale e scrittura, tra teatro come espressione sociale e teatro come retaggio di domini culturali, tra romanzo che utilizza la lingua dei colonizzatori e romanzo che vuole nascere dalla lingua orale di un popolo alla ricerca del suo alfabeto scritto; queste sono le principali questioni che l’Autore affronta in questo saggio che si trasfigura in divenire storico di una nazione e di un continente. Così come Cirillo e Metodio affrontarono nel medioevo la creazione di un alfabeto slavo, così come ancor prima Ulfila cercò di fermare sulla carta la parlata dei Goti, ecco che ancora una volta, nell’infinito divenire della Storia, altri popoli sono alla ricerca della affermazione della loro identità culturale attraverso la scrittura, affrancandosi da un retaggio alfabetico e linguistico imposto proprio da quelle genti europee che mille anni prima sono andate alla ricerca di quella stessa liberazione dal dominio culturale dell’impero romano. In questo senso Decolonizzare la mente è libro illuminante. Nulla è mai nuovo sotto il cielo della storia dell’umanità e spesso i dominati di ieri divengono i dominatori dell’oggi.
Un libro.
Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana di Ngugi Wa Thiong’o (Jaca Book).

martedì 16 giugno 2015

Due romanzi di Marino Magliani

Ci sono libri che si appalesano all’universo della letteratura con una caratteristica unica e affascinante: l’inscindibilità. È questo un accadimento raro e prezioso che va sottolineato e rimarcato. È il caso di Marino Magliani che dà alle stampe nel 2014 Soggiorno a Zeewijk per i tipi di Amos Edizioni e nel 2015 Il canale bracco per i tipi di Fusta Editore. Due romanzi legati da atmosfere e cammini, da scoperte e rivelazioni, da vite complesse e sentimenti forti. Marino Magliani vive e scrive (e traduce) in Olanda, luogo che lui stesso designa come entità spaziotemporale in cui si esprime la sua vena creativa. Ma Marino Magliani è ligure, di quella Liguria di entroterra solitari e rocciosi, di quella Liguria di agricoltura strappata alla verticalità del mare e dell'Appennino, contraltare immaginifico di un’altra agricoltura, quella olandese, strappata invece all’orizzontalità invasiva del Mare del Nord. E questo rapporto tra verticalità e orizzontalità dei luoghi è da sempre fucina narrativa di Magliani. E così si arriva al Soggiorno e al Canale, due romanzi che si compenetrano, si avviluppano, si raccontano viceversa, in un viceversa che è anche e soprattutto rappresentazione del rapporto dell’Autore con queste due terre (l’Olanda e la Liguria) che sono palcoscenico in cui egli rappresenta i sentimenti
che vivono nelle storie che ci racconta con levità forte. Magliani è trasfigurato da un io narrante che percorre chilometri nel paesaggio estremo e ovattato del Nord Europa, sottolineando al contempo le differenze con il paesaggio acuminato e rimembrante del Ponente ligure, compiendo osservazioni di una fauna umana così differente nei costumi e negli usi e così uguale nella sua finitezza, un io narrante che viaggia
 come un picaro secentesco che conosce la pesante impenetrabilità della vita a la sua comunque tenue provvisorietà. Il Soggiorno e il Canale si rimandano vicendevolmente, con citazioni reciproche e divenire di personaggi ed emozioni, così come sa fare soltanto uno scrittore di razza che conosce il segreto delle parole, delle storie, delle anime. Con sapiente capacità narrativa l’Autore lentamente irretisce il lettore che a sua volta rimarrà preso nelle reti geniali di questi due romanzi fino a giungere a quei confini di una storia scissa e al contempo unitissima, confini che gli faranno apparire oltre ad essa i confini dell’anima di chi questa storia ha scritto. Paesaggi, luoghi, stagioni, costellazioni, donne, uomini, animali, tutti uniti nello sfondo gioioso e tuttavia malinconico in cui a un certo punto si staglierà la figura di Piet, doppelgänger borgesiano dell’Autore che, nel segreto delle sue carte, nasconde una mappa che è mappa di storie e di anime, mappa di terre, di mondi, di concatenazioni, di nostalgie che sono il patrimonio ultimo dell’umanità che cerca, da sempre, se stessa, mappa che poi è la sorprendente certificazione del destino dell’Autore. Il lettore concluderà la lettura di questi due romanzi nella profonda certezza che Marino Magliani sia uno dei migliori scrittori che abbia mai incontrato.
Due libri.
Soggiorno a Zeewijk, di Marino Magliani (Amos Edizioni).
Il canale bracco, di Marino Magliani (Fusta Editore).

lunedì 8 giugno 2015

Il mio nome è Frank de Jung, di Frank Gonella (Wingsberthouse)

Esiste una letteratura che esplora linee sottotraccia che si celano all’apparente divenire del mondo, una letteratura che nasconde tra le sue parole messaggi criptati il cui valore e significato va ben oltre quello della trama. Ne I tre giorni del condor l’agente Joseph Turner legge, arroccato in una nuovayorkese Fortezza Bastiani ben presto espugnata da tartari ellroyani che sono già millenaristico prodromo della "Trilogia sporca dell’America", romanzi noir e gialli con la consapevolezza che in essi è sicuramente nascosta qualche stringa esplicativa dei complotti nascenti nel pantano delle guerre segrete, mentre nello stesso momento, immerso nelle paludi indocinesi di confronti finali tra superpotenze, tra guerriglieri vietcong e ambasciate occidentali in odor di enucleazione, tra le pagine de L’onorevole scolaro Jerry Westerby, spia avventizia agli ordini del definitivo Circus di George Smiley, porta con sé una sacca piena di libri, tra gli altri quelli di Conrad, libri che all’occorrenza possono divenire baedeker essenziali di chi opera nell’underground del grande gioco dell’intelligence. 
Leggendo Il mio nome è Frank de Jung (nome dagli echi fiamminghi, di quel Belgio che è luogo di efferatezze coloniali, ah… il conradiano Cuore di tenebra, oggetto che si trasfigura nel magma esiziale di Apocalypse now, ah… quelle stragi congolesi dalle risonanze di "mondo movies" jacopettiani e di mercenari katanghesi che tingono di sangue i Sessanta e i Settanta) è naturale pensare che questo romanzo avrebbe immediata cittadinanza tra quelle opere che contengono tracce da interpretare, da decrittare. Frank Gonella, "nom de plume" di un autore che è ben più di un creatore di trame che sarebbe troppo facile definire noir, con sapienti pennellate che fondono ossessioni pynchoniane e report alla Marc Saudade di El Centro (romanzo che è pietra miliare ahimè troppo poco riconosciuta di un certo narrare che è stato bolaniano un ventennio prima di Bolaňo) compila una mappatura potente e irrinunciabile di quel "nada" che sottende all’orrore di un’umanità che è sì simile a Dio ma anche simile al principe degli angeli ribelli Lucifero. Il mio nome è Frank de Jung è libro, saggio, romanzo, rapporto consegnato a chi avrà la consapevolezza di comprendere, narrazione per nulla politically correct (finalmente!), vaso di Pandora in cui coabitano satrapi nascenti dalla dissoluzione del comunismo e figli di London Fields alla Martin Amis. Esoterico come un papiro celato negli anfratti di una mastaba sumera o come un caleidoscopio di inquietanti alfabeti scolpiti sulle rovine di una città Maya, questo romanzo deve essere bagaglio necessario per chi sa che la parola scritta è solo un labile confine che segna l’avanzata di universi quantistici dove gli esseri senzienti si trasformano in una unità inscindibile in cui vittime e carnefici cantano congiuntamente l’eternità del male.
Un libro.
Il mio nome è Frank de Jung, di Frank Gonella (Wingsberthouse).