giovedì 29 agosto 2013

La vedova incinta, di Martin Amis (Einaudi)

Ormai da tempo, parlando di libri non ho bisogno di essere guidato nelle mie scelte. Ma, anni fa, il titolare di una libreria mi mise in mano una copia di Altra gente e mi disse “questo è un libro che dovrebbe piacerti”. E ci volle poco, nel passare da Altra gente a Territori londinesi, per capire che Martin Amis era uno scrittore che con la follia e l’inquietudine ci sapeva fare. Amis non ha nessuna remora e nessuna paura nel confrontarsi con tutto quello che potrebbe cadere sotto la mannaia del politically correct. Anzi, Amis costruisce le sue storie proprio prendendo spunto da quelle che sono le zone più segrete e inconfessabili del nostro animo. E La vedova incinta non fa eccezione. Lievemente moralista come Rohmer ma anche e soprattutto spietato come un romanziere russo dell’Ottocento, Amis gioca qui con i corpi dei suoi personaggi e con la loro inevitabile resa dei conti con le mode, i cliché e l’inarrestabile scorrere del tempo. Personaggi descritti come prigionieri di una corporeità e di una sessualità totalmente influenzate dalle mode culturali e dalle parole d’ordine di un certo modello imposto a partire dagli anni Sessanta. Personaggi che, loro malgrado, inscenano, durante una vacanza in un castello italiano nel 1970, un carnale autodafé che, alla fine, farà piazza pulita di tutti i luoghi comuni (progressisti o conservatori o giornalistici che dir si voglia) che, come spade di Damocle, pendono sul complicato rapporto fra amore e sesso. Il sesso, nella scrittura di Amis, inteso come grande livellatore; di fronte alla sua insopprimibile forza non possiamo aggrapparci a nessuna idea politica o religiosa, a nessun conformismo o anticonformismo. Siamo tutti solo marionette. Marionette dentro una storia.
Un libro.
La vedova incinta, di Martin Amis (Einaudi).

venerdì 23 agosto 2013

Racconti per signora, di Piersandro Pallavicini (Feltrinelli Zoom)

Il viaggio che il lettore compie tra le parole di un romanzo è destinato ad arrivare, qualche volta, in un affascinante luogo in cui non vigono più le normali leggi della fisica. Un luogo misteriosamente retto da una sorta di letteraria Era di Planck, dove il non detto si cela tra gli argini di impenetrabili fiumi carsici che superano il detto e seminano desideri di ricerca ulteriore e di visioni caleidoscopiche che ancora una volta fondano il sentire del lettore con quello dell’autore, nel ricomporsi e nel ristabilirsi di quella unità che entrambi hanno lungamente e faticosamente cercato.
Differenti erano i piani narrativi di Romanzo per signora, piani narrativi che erano amalgamati dall’Autore in una narrazione che portava a toccare luoghi, anime, esperienze, memorie. E proprio in Romanzo per signora si incontrava, ad un certo punto, questa Era di Planck, questo tempo dove le leggi della narrazione si aprivano verso altri lidi, altri orizzonti, altre domande che il lettore percepiva vivi, palpitanti, ma quasi prigionieri dell’ineludibile e inevitabile dovere del narratore (e della narrazione).
Ora, con Racconti per signora, Piersandro Pallavicini ci accompagna per mano attraverso la genesi della sua personalissima e letteraria Era di Planck.
Affascinanti sviluppi che lentamente si trasfigurano nell’ostensione del segreto sentire del narratore; reminiscenze che fondono autori, libri, vite e visioni; affabulazioni che sublimano quella ossessione per la letteratura, che è propria degli scrittori di razza, in una visione quasi borgesiana, dove la parola scritta diviene l’inevitabile e deliziosamente definitiva unità di misura dello scorrere del tempo, e di quel bagaglio di gioie e sofferenze che sempre l'accompagna.
Racconti per signora non ha solamente la funzione di appendice integrativa (anche se di appendice lussureggiante si tratta) di Romanzo per signora, perché vive di vita (e emozioni e sentimenti) propri.
Racconti per signora è il backstage dell’anima di un narratore.
Un libro.
Racconti per signora, di Piersandro Pallavicini (Feltrinelli Zoom).

martedì 20 agosto 2013

Casa Bàrnaba, di Rosalba Conserva (Manni)

Una silenziosa mutazione epocale, un cambiamento radicale, duro, i cui prodromi sono tutti ben presenti e visibili. Annunciati dal boogie woogie, dalle sigarette e dalla cioccolata, dalle camionette con la stella bianca degli Alleati. Annunciati dalle prime automobili, che cominciano a solcare strade che per loro non sono state costruite. Annunciati dalle prime vacanze dei pochi che ben presto diverranno dei molti. Annunciati dal lento e quasi impercettibile adeguarsi delle piccole e intime abitudini quotidiane. Il cadenzato crollo di una civiltà contadina, mai descritta come una sterile arcadia, bensì come un secolare modus vivendi, che tutto accoglie in sè come un atavico grembo materno, attraversa inesorabilmente le vite e gli animi, le speranze e i sogni, le attese e le azioni. Sino a lasciare un immutabile segno nei protagonisti, nelle dimore, nel paesaggio, nelle pietre. Sino al definitivo compiersi di quella inevitabile evoluzione che, pur sotto gli occhi di tutti, non ha trovato ad opporvisi il cuore di nessuno, perchè comunque nessuno avrebbe potuto resistere a quello che è l'inevitabile scorrere del tempo. Rosalba Conserva dipinge questo grande affresco senza mai lasciarsi trascinare dalle passioni e dai giudizi, dai facili colpi di teatro o da qualsivoglia retorica. Usa soltanto un mezzo. Apparentemente definitivo, freddo, senza appello, ma pieno di una pietas che è strumento non solo per descrivere ma anche e soprattutto per comprendere e partecipare. La creazione di un linguaggio, di un ritmo, di una cifra stilistica che nel suo costante fluire ricorda Verga, Capuana, De Roberto, diviene il filtro attraverso il quale passano e si spiegano le emozioni, i gesti, il detto e ancor più il non detto. Rosalba Conserva illustra un'epopea con i colori della parola e del linguaggio. Forse, l'invenzione più importante dell'umanità.
Un libro.
Casa Bàrnaba, di Rosalba Conserva (Manni).

venerdì 9 agosto 2013

La custodia della scrittura

A chi oggi, in questo preciso istante pregno di deiezioni digitali, affidare la propria scrittura? Alla cumulativa costruzione degli status di facebook? Alla intermittente ed evanescente presenza impalpabile dei tweet di twitter? All'immaginifico e priapico universo di tumblr? All'insondabile iconografia di pinterest? Alla esperta, seppur forse coattivamente decisiva, stabilità dello spazio di un blog? C'è la possibilità di costruire una narrazione nella fuga costante degli attimi di una condivisione che spesso non è se non grido solipsistico venato da reminiscenze da speaker's corner londinese anni Sessanta? E questa stessa scrittura non muta a seconda delle piattaforme (definizione staticamente rimembrante di storie very amazing da space opera pubblicata su fogli segnati dall'untume di cibarie adolescenziali mooooolto USA anni Cinquanta)?
Ridondanze estreme che conducono al nulla di una miscela che si perde nel deserto e nel niente?
Nessun segno di approvazione o di disapprovazione è sinonimo di morte civile e digitale, per dirla alla Seth Godin. Forse per la scrittura oggi ci sono tutti i luoghi e, proprio per questo, non ce n'è nessuno.

martedì 6 agosto 2013

I mestieri di Po, a cura di Osvaldo Galli e Giovanni Giovannetti (Effigie)

L’acqua è da sempre il simbolo della vita. E l’acqua del grande fiume, il Po, si trasfigura in quest’opera nel simbolo non solo della vita, ma delle vite degli abitanti delle terre bagnate da quel fiume. 
Opera che riunisce i pregi del saggio storico con il forte impatto del libro fotografico, I mestieri di Po è una fotografia fatta di parole e un saggio fatto di immagini. 
Cento anni di storia, cento anni di fatiche, cento anni di memorie. Il mutare delle abitudini umane, delle abitudini della Storia immobile, delle abitudini delle “genti meccaniche” di manzoniana memoria, disposto e a volte imposto dall’azione della Storia eroica, disposto e a volte imposto dall’azione della Storia “delle battaglie e degli imperatori”, ha segnato in profondo la vita di noi tutti. 
La memoria indelebile del grande fiume è conservata nella sua paziente potenza. 
La vacua memoria degli uomini è solo il frutto della loro vanità.

Un libro.
I mestieri di Po-Navaroli, renaioli, contadini, lavandaie, a cura di Osvaldo Galli e Giovanni Giovannetti (Effigie).

giovedì 1 agosto 2013

Nelle vene quell'acqua d'argento, di Dario Franceschini (Bompiani)

L’unico viaggio che un uomo può intraprendere per rispondere alle proprie domande è il viaggio dentro se stesso, verso le proprie radici. E l’unico viaggio che Primo Bottardi può iniziare per rispondere a quell’unica domanda alla quale sta attaccata la sua vita è il viaggio lungo il grande fiume. Un viaggio pieno di ricordi, di struggenti nostalgie, di inquietanti presagi.
Un viaggio lungo il nastro argenteo del Po, con le sue rive, con i suoi paesi, con i suoi uomini piegati dalla fatica, ma sempre ristorati dall’odore inconfondibile delle sue acque, con le sue donne silenziose e comprensive, carnali e definitive, portatrici di vita, nonostante tutto, e quindi così simili all’acqua.
All’acqua del fiume. All’acqua del grande fiume. All’acqua del Po.
Un nastro argenteo che trascina con sé, nel bene e nel male, gli odi, gli amori, le amicizie, i successi e i fallimenti, le vite avventurose e quelle, magari solo apparentemente, tranquille. Un nastro argenteo che, ad un certo punto, non tiene più conto neanche dello scorrere del tempo, che non tiene più conto neanche della differenza fra sogno e realtà, se mai differenza ci sia stata.
Perché è ora di dare la risposta. Perché è ora di capire. Perché è ora di sapere. Di sapere quello che già sappiamo tutti, fin dalla nascita, ma che solo pochi tra noi hanno il cuore di comprendere.
Dario Franceschini ci accompagna per mano in questo viaggio. Ci accompagna con un linguaggio essenziale, ma pieno di amore e di comprensione. Amore e comprensione per la sua terra e per le donne e gli uomini che la vivono. Dario Franceschini sa che raccontare la propria terra è raccontare delle proprie radici e raccontare delle proprie radici è raccontare di se stessi.

Un libro.
Nelle vene quell'acqua d'argento, di Dario Franceschini (Bompiani).