giovedì 31 dicembre 2009

All Good Things...(buon 2010)

C'è un episodio delle serie Star Trek-The Next Generation che si intitola proprio cosi: All Good Things... Anzi è proprio l'ultimo episodio. Nella traduzione italiana viene reso come Ieri, Oggi, Domani.
In una sorta di precognizione, il futuro dei personaggi della serie viene presentato come orribile, drammatico, incarognito.
Tutte le belle cose finiscono e, forse, non sono nemmeno mai iniziate. La nostra storia, quella eroica degli imperatori, dei papi e delle battaglie e quella immobile delle genti meccaniche (per dirla alla Manzoni) è un turbinio di affanni.
La fine dell'anno, come il Natale, è un momento di attesa, di passaggio. Sì, certo, sono attese fittizie, non corroborate da nulla se non dalle nostre esperienze di vita.
Ma per un momento, per un attimo, per un secondo, proprio a ridosso di queste attese che mai si realizzano, pensiamo al mistero delle parole, al loro ritmo, che, forse, può per un attimo cullarci e, forse, salvarci.
All Good Things...

mercoledì 30 dicembre 2009

La differente struttura del ricordo

Ogni tanto capita. Anzi, capita spesso. Sulle strade, ai lati, tra l'erba striminzita che delimita il confine tra l'asfalto e il fosso, sorgono croci, mazzi di fiori, fotografie incorniciate dall'aspetto di ex voto che non hanno rispettato il patto con la divinità. Stanno là, quasi tutte uguali, senza un'apparente storia, se non quella di un vago dolore lontano, che comunque non ci tocca.
Ogni tanto capita. Ma capita di meno. Sulle strade, ma più all'interno, a volte in mezzo a un campo o su una collinetta. Piramidi improbabili, di un grigio tendente al nero. La forma quasi a ricordare un qualche elitario tempio massonico. Parole a ricordo di un evento di polvere e sangue, di divise e fanfare. Anche questo non riguarda ormai che la memoria di pochi.
Accomunate da un sentore di destino violento.
Le prime a testimonianza di una maledizione quotidiana, che riguarda tutti e, nella sua banalità, nessuno.
Le seconde a imperitura memoria di un eroismo pubblico, che comunque non può, e non vuole, prescindere dal sangue.
Così, nel nostro andare quotidiano, nel nostro essere veloci, nel nostro essere di benzina e metallo, incontriamo sulle strade le croci che ricordano i morti degli incidenti stradali e i morti delle battaglie risorgimentali.
Un tributo di sangue che unisce due guerre. Quella eroica che finisce nei libri di storia. Quella banale che, riguardandoci tutti, finisce nell'oblio.
Due film.
Il sorpasso, di Dino Risi.
1860, di Alessandro Blasetti.

sabato 26 dicembre 2009

In memoria di Carlo Sgorlon

La pianura è sempre stata un luogo di passaggio. Dalle mie parti i vecchi ricordano che, dopo il 25 aprile del '45, dagli stradoni dei paesi era passata la X Mas. Le persiane chiuse avevano nascosto le donne che guardavano giù, verso i teloni scuri dei camion. Una fila infinita di automezzi neri aveva impegnato per ore gli sguardi attenti delle madri e quelli preoccupati dei figli, nascosti nei solai per sfuggire alla Germania.
Andavano a passo d'uomo, con le canne dei mitra spianate verso le case. Eterna minaccia del male che non si arrende nemmeno di fronte alla sconfitta.
Ci avevano messo quasi un giorno e una notte a lasciare quegli sguardi e poi se ne erano andati verso la loro resa, con le acque del Po che erano già rosse del sangue dei carnefici divenuti vittime.
Qualche giorno dopo i contadini avevano trovato nei campi il corpo senza vita di un marò, abbandonato dai suoi camerati. Sembrava dormire. Era morto probabilmente a causa delle ferite riportate in qualche scontro a fuoco, avvenuto durante il passaggio del Po. Non aveva le armi e nemmeno le scarpe. Anche negli ultimi istanti della disfatta possono sempre servire.
Lo seppellirono in fretta e furia nell'ossario del cimitero del paese. Seppero allora che la guerra era veramente finita.
Ancora oggi c'è una piccola lapide: 30/4/1945 - Sergente X Mas.
Negli stessi giorni, nell'Oltrepo Pavese, si ritiravano i mongoli. Tutti assieme, come una tribù. Come tribù erano stati quando, nei disastri umani e politici della storia, avevano stretto, nel gelo russo, il loro folle patto con il Terzo Reich. Anche loro andavano verso il nulla, con i loro ataman e le loro iurte. Come un circo dell'orrore.
Carlo Sgorlon è morto oggi. Anche Carlo Sgorlon aveva visto avvenire tutto questo, nelle sue terre. E ne aveva scritto.
Un libro.
L'armata dei fiumi perduti, di Carlo Sgorlon, Mondadori.

giovedì 24 dicembre 2009

Il passo della formica e quello del gallo

Santa Lusìa al pas d'una furmìa. Nadàl al pas d'un gal. Santa Lucia il passo di una formica. Natale il passo di un gallo. Dalle mie parti i vecchi dicevano così. Ma lo diciamo anche oggi. Il 13 dicembre, il giorno di Santa Lucia, la luce ha il passo corto, come quello della formica. Il giorno di Natale, ormai passato da alcuni giorni il solstizio d'inverno, la luce aumenta e quindi ha un passo più lungo, come quello del gallo.
Oggi sono stato al cimitero. A trovare i miei morti. Ogni vigilia di Natale ci vado. I miei morti mi stanno dietro. Io sono la loro fine e forse il loro principio. Tra i miei morti c'è anche mio padre.
Sarà stato per la nebbia o per la pioggia ma, nonostante il prossimo passo del gallo, alle quattro del pomeriggio era già buio.
Ho acceso un cero. Mi è sembrato che ci fosse un po' più di luce. Tutto qui.

Come in un romanzo di Conrad

Dalle mie parti le poste sono molto impegnate a fare l'istituto di credito e il gestore di telefonia mobile. Un po' meno a fare le poste. Ci sono giorni nei quali il flusso delle comunicazioni si blocca all'improvviso e si sta tutti lì, come nelle colonie, ad aspettare il postale da Londra, che ti porta il Times vecchio di un mese. Sarebbe bello starsene tranquilli, indossando un completo di lino bianco, un casco coloniale di sughero, fumare un sigaro sorseggiando rhum e dire: sto aspettando un comuncato urgente dalla Compagnia delle Indie. Speriamo mi arrivi entro il mese prossimo.
Ecco, proprio come in un romanzo di Conrad.
Ultimamente poi mi accade un fatto strano. Essendo abbonato ad un quotidiano, si presume che arrivi tutti i giorni. Sistematicamente mi accade che il postino mi metta nella cassetta delle lettere il giornale vecchio di un giorno. Il giorno 20 leggerò il giornale del 19 e il giorno 19 quello del 18. Interessante. Sembra di essere nel Mago di Oz.
Indro Montanelli diceva che non c'è cosa più vecchia al mondo di un quotidiano vecchio di un giorno.
Che, oltre all'istituto di credito e alla gestione di telefonini, le poste vogliano cominciare ad interessarsi anche di antiquariato? Buon Natale a tutti!

mercoledì 23 dicembre 2009

Vorrei averlo scritto io

Dino Campana camminava e camminava e camminava. Camminava e scappava. Scappava e camminava. Dino Campana ogni tanto si rifugiava in un cinema, per trovare un momentaneo sollievo alle sue ossessioni. Dino Campana attraversava l'Italia e il Sudamerica. Dino Campana alla fine ha smesso di scappare. Dino Campana è morto in manicomio. Dino Campana era un poeta.
A volte capita di camminare e camminare e camminare. A volte capita di camminare e scappare. Camminando e forse scappando ho trovato questo blog. E in questo blog ho trovato questo post.
Mi sono sentito come Dino Campana quando, nascondendosi nel buio della sala di un un piccolo cinema di paese, trovava un po' di sollievo al vagare della sua mente.
Quel post lì avrei proprio voluto scriverlo io.
Comunque credo che, come regalo di Natale, possa funzionare.

martedì 22 dicembre 2009

Pioggia e recensioni

Oggi, invece di nevicare, si è messo a piovere. Oggi ho scoperto che la pioggia non mi piace più.
Quando pubblichi un libro vai in cerca di recensioni. E' normale. Anch'io l'ho fatto a suo tempo.
Uno che conta. Uno che, se parla di te, ti fa vendere un sacco di copie. Uno che ha un blog seguitissimo. Uno che dirige la collana più importante di una casa editrice importante. Ecco cosa ti serve. Cerchi su internet. Trovi il suo indirizzo. Gli spedisci il libro e magari gli mandi una mail. Lui ti risponde che sì, se il libro gli piace ne parlerà.
Passano i mesi, gli anni. Vai sul suo seguitissimo blog e scopri una frase, una frase che non avevi letto prima: non inviatemi i vostri libri con raccomandate. Io a casa non ci sono quasi mai. Se mi spedite il libro con la posta ordinaria, il postino lo mette nella cassetta delle lettere e io poi lo trovo. Se lo spedite con una raccomandata mi costringete a sprecare un'ora e mezza di macchina per fare avanti e indietro dall'ufficio postale.
E io che credevo che il mio libro non gli fosse piaciuto. Ecco perché non ne ha mai parlato. Si è trattato solo di un disguido postale.
Credo che la pioggia ricomincerà a piacermi.

lunedì 21 dicembre 2009

In cerca della Biblioteca di Babele

(nella foto: Borges e Franco Maria Ricci)

Nei primissimi anni Ottanta riuscii ad accaparrarmi il primo numero di FMR. Rivista patinata edita da Franco Maria Ricci (purtroppo non siamo parenti, ma solo quasi omonimi). Nelle ultime pagine feci una grande scoperta (le scoperte fatte alla fine di una rivista o di un libro sono, secondo me, le più belle e foriere di fascino). La sua casa editrice aveva raccolto in una collana tutti i testi che Borges riteneva fondamentali per la sua formazione e i suoi interessi. La collana si intitolava (of course, direbbero alcuni) La Biblioteca di Babele (inserisco il link, così se ne può avere la visione completa). All'epoca non riuscii ad acquistare nessuno di quei libri. D'altra parte ero molto giovane, la passione per Borges mi era appena nata e si era concretizzata nell'entusiastica lettura della Antologia della letteratura fantastica. Anni dopo la collana uscì negli Oscar Mondadori, ma neanche allora ne acquistai i volumi. Qualche anno fa, a cena da un amico scrittore, potei ammirarne tutta la serie completa (quella originale edita da Franco Maria Ricci). L'amico scrittore mi confessò di averla fortunosamente trovata in una libreria di Pisa, luogo dove allora frequentava, alla Normale, un corso di dottorato. Quella sera mi ricordai di tutte le volte che quella collana mi era capitata sotto agli occhi, senza che io facessi nulla per ottenerla. Una ricerca senza esito che mi ha accompagnato per anni e che mi accompagna tuttora. Sono sicuro che Borges stesso, in qualche modo, apprezzerebbe questo inseguimento infruttuoso.
Il Natale si avvicina. Tra gelo, nebbia e neve, sono costretto ancora una volta ad esortare gli amanti del grande argentino a frequentare bancarelle e librerie semiclandestine. Può darsi che quei libri si nascondano da qualche parte. Se qualcuno che li conosce e li cerca, li trova, mi faccia un fischio. Almeno saprò che qualche estimatore di Borges è rimasto soddisfatto.

domenica 20 dicembre 2009

Indro Montanelli e la salamandra

Sono sempre stato un grande ammiratore di Indro Montanelli. La sua Storia d'Italia me la sono bevuta tutta prima dei vent'anni.
Il grande Indro accusava noi italiani di essere dei dietrologi; di cercare cioè, dietro ad ogni avvenimento politico, cause più o meno occulte, che poi tanto occulte magari non erano. Portava ad esempio gli americani che mai, secondo lui, avrebbero fatto o pensato una cosa del genere. Il grande toscano dimenticava però tutta la dietrologia americana sull'omicidio del presidente Kennedy e tutto il florilegio sulla teoria del complotto, che proprio negli Usa ha uno dei suoi pilastri.
Ma ai grandi del giornalismo si può ben perdonare una svista (e io, a Montanelli, perdonerei questo ed altro).
Nei primi anni Settanta esce in Italia un libro strano. Lo scrive Morris West. Si intitola La Salamandra. Non so se Mondadori lo ha ancora in catalogo e pertanto invito tutti a frenetiche consultazioni prenatalizie di bancarelle e di remainders.
Il passato della nostra storia è sempre presente ed sempre in procinto di ritornare (o forse è già ritornato, o forse non se ne è nemmeno mai andato via). Le parole d'ordine più retrive e pericolose sono da noi sempre attuali. Morris West ha scritto alcune cose sull'Italia, alcune cose sul nostro passato recente. E per raccontarle ha scelto la forma del romanzo. Molto prima di De Cataldo.
Due libri.
La Salamandra, di Morris West (Mondadori).
Libra, di Don DeLillo (Einaudi).

venerdì 18 dicembre 2009

Alack Sinner


Topolino si leggeva bene. C'erano su un sacco di citazioni. Era una scuola che ti insegnava tantissime cose. Una ventina di anni fai scoprii Philip Dick, poi mi sono ricordato di una storia, apparsa proprio su Topolino, dove un robot maggiordomo si chiamava Android (e in Italia le pecore elettriche e i blade runner erano di là da venire). E in un'altra c'era uno scienziato pazzo, con il corpo distrutto, che viveva in una sorta di incubatrice mobile, cose che si vedranno nella serie originale di Star Trek (dove peraltro si sprecano le citazioni ad Asimov e al buon vecchio Phil Dick).
Ma il tempo passa, diventa di pietra, come forse di pietra diventano le nostre facce (se non, Dio non voglia, anche le nostre anime).
Se si deve parlare di facce di pietra, e lo si deve fare visto che il tempo passa, allora bisogna parlare di Alack Sinner.
José Munoz e Carlos Sampayo sono due bei nomi. Viene in mente, a sentirli, tutto il Sudamerica, con il suo colore (fatto di gioia, allegria, umanità) ma anche con tutto il suo dolore (fatto di narcos, di consiglieri americani, di torturatori alla Pinochet e alla Videla).
Loro si firmano così: Munoz y Sampayo. Un nome dalla fonetica spagnola quasi rimbalzante, che ti ricorda quando Gianni Minà parla estasiato di Cuba (forse un po' meno di estasi non farebbe male, d'altra parte Cuba, prima di Castro, era un bordello mafioso).
E allora è ovvio che le facce (e non solo) diventino di pietra.
Alack Sinner è un personaggio cupo che vive storie cupe. Alack Sinner è un detective dalla faccia di pietra. Munoz y Sampaio l'hanno disegnato e fatto vivere.

giovedì 17 dicembre 2009

E.M.Forster e lo stradone

Si dice proprio così: lo stradone. Dalle mie parti è la strada principale del paese. E' la Statale 211, che va da Tortona a Novara. Ma può essere anche un'altra. Magari una che ti porta da Casale Monferrato a Pavia. Oppure da Alessandria fino a Vigevano. Oppure una circonvallazione qualsiasi, un nastro grigio, senza paracarri, che si confonde con la nebbia d'inverno o che si fa abitare dalla Fata Morgana, nel luccichio tremante del caldo di Luglio.
L'importante è che spezza in due tutti i paesi e nell'unirli e avvicinarli (in quella apparente facilità della pianura) li lascia come sono. Perché le due parti tagliate sono in realtà simili. Niente quartieri diversi o gente o usi differenti. Li spezza e basta. Ma li lascia uguali. Perché quello che conta, poi, non sono i paesi, non sono i campi, no; quello che conta è lo stradone.
Dello stradone mi ero completamente dimenticato. Me lo ha fatto ricordare Piersandro Pallavicini quando, recensendomi su Satisfiction, ha parlato degli stradoni che si potevano riconoscere in quello che avevo scritto.
Passavo in auto proprio su uno stradone quando mi è venuta voglia di leggere Forster. Avevo comprato tempo prima un meridiano mondadori con tutti i suoi romanzi. Quegli acquisti che si fanno a Natale, quando i meridiani sono scontati.
L'ho già detto tempo fa. Quando, come faccio io, si legge per motivi tecnici, quando si legge per scoprire i trucchi del mestiere, si perde la gioia di leggere per il gusto di farlo. E la si perde definitivamente. In modo irreversibile.
Ma con i romanzi di Forster no. Con Forster è stato diverso. Dopo tanti anni.
Una volta Piersandro Pallavicini mi disse: "La Lomellina è uno stato d'animo."
L'importante è farsi venire in mente un buon libro da leggere, mentre si viaggia su uno stradone.
Un libro.
Romanzi, di E.M. Forster (I Meridiani Mondadori)

lunedì 14 dicembre 2009

Neanche nella Rurh

Ci son dei giorni che ti guardi intorno e non vedi niente.
Una volta qui era pieno di filande. Ma una volta non vuol dire ieri. Una volta vuol dire prima della guerra. Una volta qui era pieno di gelsi, che i bachi da seta solo le foglie dei gelsi mangiavano. E le filande avevano delle ciminiere. Alte, in pietra rossa, che neanche nella Rurh. Perché i bachi li dovevi far morire nell'acqua bollente, prima di prelevarne la seta. E poi le migliaia di bozzoli li raggruppavi in balle, come il fieno.
I vecchi raccontavano che c'era uno che in filanda si occupava di spostare queste balle. E che era diventato mezzo matto perché, diceva lui, le balle gli cadevano in testa. E lo facevano apposta, a cadergli in testa.
Ieri ho fatto una passeggiata. Ho visto un sacco di TIR e un sacco di capannoni. I TIR e i capannoni non avevano insegne. Non avresti potuto capire cosa trasportassero i primi e che cosa si facesse nei secondi.
Mi è sembrato che una balla mi cadesse in testa e che lo facesse apposta, a cadermi in testa.
Ci son dei giorni che ti guardi intorno e non vedi niente.

domenica 13 dicembre 2009

Holland House Library

Io questa foto me la porto dietro da un sacco di tempo.
Dalle mie parti c'è una città in riva ad un fiume. E in questa città c'è un'università. E questa università è quella che ho fatto io. E questa università divide in due la città. Da una parte le facoltà scientifiche, dall'altra tutte le altre. E le facoltà scientifiche sono in periferia, mentre tutte le altre sono in centro. Così chi frequenta le prime, quando viene in centro, dice:"vado in città".
Qualche anno fa capitai per caso nella periferia delle facoltà scientifiche. Mi misi a guardare la vetrina di una libreria. Mi piacciono le librerie. Mi piace guardare le loro vetrine. E' una cosa che faccio sempre. Vicino a testi di anatomia e di patologia (era una libreria per studenti di medicina) c'era un poster. E il poster riproduceva proprio questa fotografia. Entrai. Il titolare era un omino anziano, vestito con un completo marrone. Mi incartò il poster e pagai. Poi chiesi: "Che cosa rappresenta?" Sorrise piano:"Bisogna andare avanti. Sempre. Nonostante tutto. Nonostante tutto."
Io questa foto me la porto dietro da un sacco di tempo.




(1940-Holland House Library. Kensington. Londra.
Lettori scelgono libri, dopo un raid aereo tedesco.)

venerdì 11 dicembre 2009

Avevo cinque anni e mezzo (12 dicembre 1969)

Da bambini il ...e mezzo conta. Conta eccome! Non sei schiavo del tempo che passa e che ti si deposita addosso. Il tempo lo vuoi cavalcare. Il tempo è importante e lo devi segnare, lo devi contare. Ecco perché non ti basta dire: ho tot anni. No! Il tempo lo devi fare tuo. Tutto! E allora aggiungi il ...e mezzo, così diventi più grande.
Una grande foto. Tutta grigia. Anzi, piena di tonalità di grigio. Grigio scuro dei mattoni, grigio chiaro del pavimento, grigio pieno di ombre degli stracci, grigio quasi bianco delle facce. Ma i mattoni non sono mattoni, sono calcinacci. Il pavimento non è pulito, è tutto sporco. Anche le facce sono sporche. Sono facce con le bocche aperte. Più per la sorpresa (la sorpresa dell'orrore, quello inspiegabile, quello che pensi non possa accadere, mai) che per il dolore. Gli stracci non sono stracci. Sono vestiti. Anzi, sono persone. Buttate per terra. Buttate via. Come stracci.
Mia madre mi tolse di mano il giornale. Non sta bene per un bambino vedere quelle cose.
Era una foto della sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Quella in Piazza Fontana. A Milano.
Era il 12 dicembre 1969.
Avevo cinque anni e mezzo.

martedì 8 dicembre 2009

Il sogno, José Saramago, Borges e la biblioteca

Subisco spesso la ricorrenza di un sogno. Su di me, come su tutti quelli che amano i libri, stare in una libreria o in una biblioteca, ha lo stesso effetto che una pasticceria ha su un bambino che ama i dolci.
Nella ricorrenza di questo sogno l'ambientazione è ovviamente una libreria. Immensa, con migliaia di scaffali, dove altrettante migliaia di libri non aspettano altro che di essere guardati, sfogliati, letti.
A pag. 100 de Il Quaderno, José Saramago così scrive: "L'ultima immagine che abbiamo del Brasile è quella di una libreria, una cattedrale di libri...una libreria per acquistare libri, certo, ma anche per godere dell'impressionante spettacolo di tanti titoli organizzati in modo così attraente, come se non fosse un negozio, come se si trattasse di un'opera d'arte."
Certamente è un'effetto della traduzione, ma mi pare di notare nella prosa di Saramago, a me che sono da sempre un frequentatore della parola di Borges, lo stesso ritmo, la stessa prevalenza del non detto che ritrovo spesso, e con sommo piacere, nel grande argentino.
Sempre Saramago, sempre Il Quaderno. Così a pag. 111: "...continuo a considerare (Borges, n.d.a.) l'inventore della letteratura virtuale, quella sua letteratura che sembra essersi slegata dalla realtà per meglio rivelarne gli invisibili misteri."
Due libri.
Il Quaderno, di José Saramago (Bollati Boringhieri).
Il fascino delle biblioteche, di Massimo Listri e Umberto Eco (Umberto Allemandi & Co.)

lunedì 7 dicembre 2009

Web 2.0 addiction

Oggi sulla pianura piove. Una pioggia umida, costante. Una pioggia, come disse una volta un mio amico, alla Blade Runner. Una pioggia che ti trapassa i muscoli e anche, forse, il cervello. Ecco perché viene voglia di scrivere certe cose (tutte comunque molto phildickiane).

Lo devo proprio confessare. Mi piace girare sul web per leggere quello che il web dice di se stesso. Digitare friendfeed o twitter o tumblr o wordpress su qualsiasi motore di ricerca e leggere tutto quello che si dice o si racconta o si spera o si prevede sui destini del web2.0, esercita su di me un fascino sconfinato. Adoro sapere se blogger ha ancora un senso. Mi piace conoscere quello che la blogosfera pensa (nel bene o nel male) di tumblr. Provo un senso di appagamento sapere dell’esistenza di ping.fm o di hellotxt. Mi perdo nelle considerazioni di chi cerca di dare un senso a Posterous. Che tristezza infinita e inconsolabile venire a scoprire che un follower ti ha mollato, o che su FB qualcuno dei tuoi amici è scomparso. E che orrore quando il disertore non si è cancellato, ma è ancora lì, con tutti i suoi amici e i suoi followers, e tutto questo senza di me! E il grave è che tutto quello che ho scritto fin qui, l’ho scritto senza alcun intento ironico. E’ questo il grave. E’ questa la mia folle web 2.0 addiction.

Mio nonno combatté nella Prima Guerra Mondiale. Si fece un paio di inverni in una trincea sul Carso, prima di essere colpito da una granata. Si lavava nella neve e, nelle lettere che spediva a mia nonna, ci metteva le pulci morte per far vedere come se la passava da schifo.

Mio padre combatté nella Seconda Guerra Mondiale. Si fece tre anni al fronte, prima di essere travolto dall'otto Settembre e finire preso dai Tedeschi.

Chissà. Almeno la guerra oggi si facesse solo via mail o su qualche social network. Sta di fatto che, come disse una volta un altro mio amico (che non abitava in pianura, ma sulle colline tortonesi): ci va giù bene!

sabato 5 dicembre 2009

Apocalipsi nau

C'è un detto, nel dialetto delle mie parti, che si usa quando a qualcuno vengono le idee più strane e irrealizzabili: ad venan in ment me i fra ad not (ti vengono in mente come ai frati di notte).
Oggi non è l'anniversario di niente che riguardi Andrea Pazienza, ma a me, che vengono in mente come ai frati di notte, è venuto in mente il Paz.
Certo che, quando lui cominciava a disegnare le sue storie, io non è che fossi già grande. Mi pare facessi le medie. Però già cominciavo a leggere Linus, Frigidaire, Alter e tutta la compagnia.
Lo Zanardi, lo confesso, mi è sempre stato sulle cosidette, però, quando qualche anno dopo, cominciai a frequentare l'università, con tutto l'annesso e connesso di collegi, mense, file chilometriche alle segreterie per ritirare gli statini (chissà se oggi qualcuno sa ancora cosa sono gli statini?), di cose e atmosfere simili a quelle che disegnava il Paz ne ho viste parecchie.
Poi nel 2002, dopo tante letture sulle tavole a fumetti, ho visto il film Paz!
E lì Andrea Pazienza c'era tutto. E c'era tutto il suo mondo che poi era stato anche il mio. E allora mi sono tornati in mente Pompeo, Pentothal e tutta la compagnia e perfino lo Zanardi mi stava un po' meno sulle cosidette.
C'è una scena del film dove un'interminabile fila di studenti aspetta di entrare in un mensa universitaria e, guardandola, ho capito che in file così avevo passato degli anni e che miei erano anche i portici della città universitaria e i cieli grigi degli autunni e le figure che ci passavano sotto.
E mi sono ricordato che a tutti era capitato, prima o poi, di finire davanti a una commissione d'esame e dire, come Fiabeschi: Apocalipsi nau.
Un film.
Paz!, di Renato De Maria (2002).
Le opere di Andrea Pazienza.
Ovviamente tutte.

venerdì 4 dicembre 2009

Il tarlo della lettura

E così alla fine è uscito. Ha per titolo Il tarlo della lettura, lo pubblica Rizzoli e c'è lo zampino di aNobii. Su aNobii ci siamo un po' tutti-quelli ai quali piace leggere, quelli che ci stanno per farsi vedere e quelli che ci stanno perché gli piace starci, punto e basta (tra l'altro non ho mai capito perché la maggior parte dei suoi iscritti ci sta con un nickname e non con il proprio nome, cosa, secondo me, freudianamente interessante).
Il libro non l'ho ancora comprato e non so se lo comprerò, comunque, se lo leggerò, magari ne parlerò ancora.
Sul duepuntozero è tutto un fiorir di critiche: "che me ne faccio se le recensioni posso leggerle gratis direttamente sul sito"; "oh, che bello, hanno messo la mia recensione"; "costa troppo"; "era ora, lo aspettavo con ansia" e via discorrendo.
Negli '80 (anzi, se non ricordo male proprio nell'80) girava una canzone (con relativo video; ah, i video degli anni'80) dei Buggles (costola degli Yes): Video killed the radio star.
Poi, sempre negli '80 (ma quante cose accadevano negli '80, sembra quasi di rimembrare il tondelliano weekend postmoderno) Renzo Arbore ci dice che la radio non è morta e se ne sta tranquillamante a fianco della tivvù.
Allora, tiriamo le somme. Sul duepuntozero è tutto un peana sulla morte del libro e alla fin della fiera dal duepuntozero proprio un libro viene fuori.
Che dire?

giovedì 3 dicembre 2009

Una risata vi (ci) seppellirà

Nei momenti bui si legge di più. Si scrive anche di più. Forse. Oppure è un'impressione. Ma le impressioni sono importanti. Niente di ciò che è vale tanto come ciò che sembra. E nello scrivere te ne freghi bellamente di ciò che è, perché il tuo compito è solo quello di far sembrare vero quello che è vero.
Mi sono sempre piaciuti i libri della Longanesi. Almeno quelli di una volta. Squadrati, con la copertina liscia e la carta bianca e ruvida.
Nel 1982 mi metto a leggerne uno. E' appena uscito. In copertina una foto strana: Stalin che fa cippirimerlo con la manina. L'immagine è sfocata, a denunciare la polvere del tempo; a dare, forse, quella patina da combat film, che fa tanto anni Quaranta e ricorda anche quei filmini, girati da Eva Braun, dove Hitler fa il buffone a Berchtesgaden.
Diego Gabutti, il cippirimerlo con la manina, è lui a farlo. Un'avventura di Amadeo Bordiga porta come sottotitolo: Il romanzo della rivoluzione come fantasmagoria.
Il dibattito sul post noir? Lucarelli che afferma che le nostre guerre coloniali sono il nostro far west? Dimentichiamoci tutto. Diego Gabutti aveva già capito come girava il mondo, letterario e non. E lo aveva capito quasi trent'anni fa. E aveva capito come descriverlo.
Umberto Eco, ne Il nome della rosa, gioca sulla presunta ossessione della Chiesa per il ridicolo e per l'umorismo. Per Gabutti invece il mondo è abitato da inconsapevoli burattini di un vaudeville politico-ideologico. E lo dice (e lo scrive) come un Henry Miller rinsavito o un Raymond Chandler ubriaco.
Prego per voi affinché ne possiate trovare una copia. Su una bancarella o in un remainder, poco importa. Quando lo leggerete, capirete quanto di ridicolo (e di spaventosamente terribile) c'è dietro la storia (quella con la esse maiuscola).
Un libro.
Un'avventura di Amadeo Bordiga, di Diego Gabutti (Longanesi).